Mappe sonore – Intervista a Francesco Giannico

Emotional Decrypter, con Fabian Vogler (Barcellona)

«La mappa sonora è una forma di media locativo che mette in relazione un luogo e le sue rappresentazioni sonore. Questa operazione avviene tramite un’interfaccia multimediale ed interattiva su un sito web come questo che ospita i suoni.

Tutte queste tracce acustiche caratterizzano nel loro insieme il paesaggio sonoro di un luogo offrendo importanti spunti di riflessione per una rilettura in chiave eco-sostenibile e non solo del nostro stile di vita».[1]

 

È così che lo stesso Francesco Giannico definisce le sue “mappe sonore”, uno strumento che oramai da anni adopera nella sua ricerca e sperimentazione di musicista elettroacustico e cacciatore di suoni. Laureato in musicologia all’Università di Lecce con una tesi in Storia della Musica per Film, si è specializzato successivamente in Design e Nuovi Media, per poi nel 2010 fondare l’AIPS – Archivio Italiano Paesaggi Sonori , che diventa uno dei primi tasselli che segneranno il suo percorso di mappatura acustica dei luoghi attraverso il processo di field recordings.

La mappa, da strumento di orientamento prettamente geografico, si arricchisce quindi di un coagulo di suoni, sottraendola all’astrazione della rappresentazione ed aprendola all’emotività ed a quel paesaggio che contraddistingue in maniera univoca ogni città e ogni territorio. La mappa di una comunità si popola delle voci della comunità stessa, così da offrire modo agli abitati di aggiungere elementi e livelli di vita che articolano  la memoria di un luogo in un racconto polifonico il quale, proprio in quanto archiviato digitalmente, è interattivo e mutevole, aperto alla continua modificazione ed al progressivo arricchimento.

I paesaggi sonori di Francesco Giannico (ispirati dalle teorie del compositore canadese Raymond Murray Schafer, che per primo coniò l’espressione soundscape) fanno quindi  riferimento non solo ad un ambiente acustico naturale, ma si nutrono proprio di quell’intersezione di suoni in cui collidono forze naturali, antropiche, animali ed umane che tutte insieme disegnano un “ritratto” site specific, che può essere usato per stimolare la sensibilità degli abitanti a prendere coscenza ulteriore del luogo che abitano,  anziché viverlo  distrattamente. Questo insieme sonoro diventa specchio delle relazioni e delle interazioni umane, come in Talking Records – Paesaggi Sonori e Antropologia Visuale nelle aree mercato rionali, della quiete rurale come in Rural Sounds, o del caos metropolitano come in Metrophony, in cui nel 2013 Francesco campiona l’intera linea di metro B e B1 di Roma, con l’idea principale di rappresentare il paesaggio sonoro apparentemente dinamico e veloce della metro, in confitto con la sua effettiva staticità, proprio per via della meccanicità e ripetizione dei gesti di salita e discesa dei passeggeri, dell’apertura e chiusura porte dei treni e dell’accumularsi della folla sulle banchine.

Il suono assurge quindi a punto di partenza e d’arrivo di una riflessione più ampia che abbraccia anche la sfera dell’ecologia del suono e vuole proprio ripartire dal suono, in un movimento circolare, per ripensare in maniera critica i paesaggi  che produciamo.

 

SM – Ciao Francesco! Il tuo lavoro di musicista elettroacustico si è gradualmente intersecato con la tecnologia sotto più punti di vista, ma ha raggiunto una maturazione con la riflessione che oramai da anni conduci su suono, ecologia e paesaggio. Qualche anno fa, infatti, nasceva il tuo progetto di mappatura sonora del territorio attraverso l’Archivio Italiano Paesaggi Sonori: come e perché nasce questa esperienza? Che cosa l’ha stimolata?

 FG – L’archivio italiano dei paesaggi sonori nasce  per il desiderio di voler raccogliere le esperienze sonore italiane legate al paesaggio sonoro, sound art, installazioni, live performances e via dicendo. Prima come base di un collettivo di persone, poi come associazione culturale. Il desiderio di fare tutto questo è scaturito dalla forte passione mia e di tutti i membri di A.I.P.S. verso la musica elettroacustica, la sperimentazione sonora, la voglia di raccontare da un altro punto di vista il paesaggio.

sessione di registrazione con i ragazzi delle medie a Grottaglie per il progetto mEte, memoria e territorio

 

SM – La tua avventura nasce a Taranto: fu proprio in occasione di un workshop organizzato nell’ambito del progetto Sonor Apuliae che ricordo di essere entrata per la prima volta in contatto con te. Non ebbi purtroppo occasione di esserci, ma ricordo che i partecipanti erano coinvolti nell’utilizzo di strumentazione tecnica, senza avere particolari conoscenze di base. L’insegnamento ed apprendimento avevano dunque una base empirica, che poi hai replicato anche in lavori successivi: come strutturi i tuoi workshop e che tipo di strumenti utilizzi?

 FG – Per le persone che desiderano partecipare ad attività del genere non è in effetti importante avere delle conoscenze di base ed anzi è mia volontà cercare di rendere l’esperienza il più aperta possibile: nozioni va bene, nozionismi proprio no. Il mio compito non è quello di un professore, non è il mio ruolo.  Spero semplicemente di  aprire una porta, un interesse verso un ambito ancora troppo distante dalla maggior parte della gente.
Di solito c’è uno schema di base che cerco di rendere adattabile a seconda del progetto che mi ritrovo di fronte. La location è molto importante in questo senso perché ti offre la base tematica, oltre che geografica, per articolare la struttura del workshop, punti di forza, punti deboli e via discorrendo. Gli strumenti che utilizziamo di solito sono normalissimi registratori digitali, talvolta microfoni a contatto o microfoni unidirezionali. Quando lavoro con i bambini mi limito anche al semplicissimo smartphone di mamma e papà, qualità certo non eccelsa ma i concetti in quel caso sono più importanti.


SM – L’altra cosa interessante in queste esperienze è che i partecipanti non sono chiamati a registrare in maniera passiva i suoni di diversi punti della città, ma sono soprattutto incoraggiati a prendere possesso corporeo dei luoghi, ad esplorarli sotto un punto di vista diverso.. secondo te esperienze del genere possono stimolare un nuovo grado di sensibilità verso la città da parte degli utenti?

 FG – Mi aspetto proprio questo in realtà, certo non prevedo rivoluzioni da un punto di vista dell’attenzione al paesaggio acustico nell’immediato futuro, ma esperienze di questo tipo sono davvero importanti per creare dei precedenti ed una sensibilità diffusa anche in persone che ignoravano completamente un tema di questo genere.

 

SM – La tua attività è strettamente radicata al territorio, un termine ed un concetto che ho sempre legato ad un’accezione politica, contrariamente al concetto di paesaggio a cui in genere si attribuisce un significato più sfumato. Alla luce di questo, il tuo lavoro può in qualche modo essere visto come una sperimentazione artistica e politica allo stesso tempo?

FG – Una domanda molto interessante a cui non è facile rispondere. Se consideriamo tutti i tentativi volti a mutare la percezione di un individuo col fine di produrre un cambiamento positivo all’interno della società allora la risposta è si,  anche quello che faccio può essere considerato indirettamente un gesto politico.  Si tratta di un modus operandi che può produrre micro cambiamenti a livello percettivo che nel tempo possono creare le cosiddette “esternalità positive” nel tessuto sociale, un po’ come l’educazione che riceviamo in famiglia, insomma.

Esempio di una Patch algoritmica

 

SM – Tra le varie opere, una sicuramente interessante è quella di Urban Sounds from the Factory City, dove hai saputo trasfigurare l’immagine dell’Ilva – un colosso industriale che purtroppo tutti noi che abbiamo vissuto quella realtà abbiamo presente – restituendone un collage sonoro. Puoi spiegarci meglio l’esperimento?

FG -Si tratta di un progetto di vari anni fa, una collaborazione con Amy Denio in cui sostanzialmente varie immagini dell’Ilva di Google Earth venivano riprocessate all’interno di un software che trasformava le sorgenti grafiche in frammenti sonori. Questi stessi suoni sono stati a loro volta riprocessati all’interno di un brano elettroacustico, in cui la voce di Amy leggeva la peste di Camus quale metafora del colosso industriale: l’Ilva come la peste.

SM – Nel 2016, in concomitanza con lo Spring Attitude Festival al MAXXI, ricordo che avevi organizzato anche un workshop con dei bambini più piccoli. Dev’essere stato sicuramente molto stimolante, per loro ma anche per te: i bambini nella loro ingenuità sanno essere molto reattivi e sensibili… a volte ti sorprendono! Come hai reso trasmissibile il concetto di soundscape ed ecologia del suono a partecipanti così piccoli e com’è stata la loro risposta?

FG – Con i bambini in realtà è molto più semplice il punto di vista teorico, loro non hanno sovrastrutture e sanno organizzare in modo più logico i pensieri di quanto non facciamo noi adulti. Avevano con loro lo smartphone dei loro genitori che utilizzavano come registratore per mappare  l’area del museo Explora sulla via Flaminia a Roma. Al termine si sono divertiti molto e hanno contribuito a creare un piccolo happening sonoro, dove ciascuno interveniva con i propri campioni durante una sorta di improvvisazione controllata. In quel caso è inutile spiegare i concetti, rischieresti di rovinare tutto, la pratica vale più di mille parole.

SM – Alcune tue installazioni sono state definite come “spazializzazioni del suono”, un’espressione che accende la curiosità di noi architetti: come si traduce in termini pratici? Come si può di fatto dare connotazioni spaziali al suono? Mi viene ad esempio in mente Earthmood – Sound of the Earth, allestita negli Ipogei Capparelli di Manfredonia…

FG – Ogni progetto ha una sua natura site specific, è pensato quindi per il luogo e il contesto in cui lavori: il suono ci offre la possibilità di porre in evidenza le peculiarità acustiche di uno spazio sfruttandone l’architettura. In EarthMood mi era stata offerta la possibilità di poter sfruttare gli ipogei e ho pensato di collocare degli speaker al loro interno accentuando il fenomeno di risonanza per talune sonorità e amplificando il particolare senso di straniamento che il luogo restituisce. C’è da aggiungere che molti dei suoni rielaborati in quell’ambiente erano prelevati direttamente dal luogo stesso, per cui non era solo un progetto site specific per ciò che riguardava la realizzazione materiale dell’installazione in sé, ma anche da un punto di vista delle fonti utilizzate.

 

SM – Sei arrivato anche a Barcellona l’anno scorso, con l’installazione Emotional Decrypter per la mostra Liquid Gender: in questo caso il suono come si intrecciava con la tematica della fluidità sessuale e dello spazio?

FG – In quel caso il mio intervento è stato di supporto, se così si può definire, al lavoro di Fabian Vogler, lo scultore con cui ho presenziato a Barcellona e che presentava una sua mostra in quei giorni. La curatrice della stessa mostra, Caterina Tomeo, ci mise in contatto per sondare gli effetti di una nostra eventuale collaborazione. Direi che è andata abbastanza bene dal mio punto di vista, Fabian nelle settimane precedenti alla mostra mi mandava ripetutamente campioni audio di oggetti che ticchettavano o cadevano semplicemente nelle cavità delle sue eccezionali sculture bronzee. Io da parte mia ho deciso di posizionare sei speaker ai lati della sala in cui si svolgeva la mostra e differenziare le sorgenti in modo da restituire un’esperienza coinvolgente e interessante al tempo stesso. In sostanza avevi la possibilità passeggiare per la sala fruendo  nello stesso momento sia della mostra che dell’installazione.

mostra per il progetto mEte, memoria e territorio – installazione interattiva “Suenu”

SM – Se dovessi descrivere il tuo lavoro con una parola sicuramente utilizzerei “stratificazione”: innanzitutto per l’uso mixato dei media (audio, video, performance, immagini), ma anche per l’intreccio interdisciplinare che ha portato ad interfacciarti con architetti, sociologi ed antropologi. Com’è stato entrare in contatto con discipline diverse e soprattutto coordinarsi per produrre insieme una visione condivisa?

 FG – Mi piace entrare in contatto con discipline diverse, credo che sia nella natura dei progetti legati alla sound art ispirarsi a più contesti e dunque ad avere a che fare con più persone. Se vedo il tutto nell’ottica di un progetto di partecipazione sociale, in cui oltre ai mentori sono coinvolti direttamente i cittadini del luogo, penso che sia una delle strade migliori da seguire, non  solo relativamente alla musica elettroacustica ma rispetto a tutto.


SM – Cosa pensi di aver appreso e cosa pensi di aver lasciato a ciascuna di queste discipline con cui ti sei interfacciato?

 FG – Ho appreso che le persone, anche quelle più semplici, hanno una gran voglia di mettersi alla prova su progetti concreti e che abbiano possibilmente un lascito, anche piccolo, in termini di produzione. Di solito ci succede di produrre al termine del workshop un’installazione oppure una performance collettiva o un sito web con un piccolo archivio digitale. Questo output, molto piccolo, è in realtà molto prezioso per chi ha preso parte alle soundwalk e ai vari workshop; è in sostanza come se  la gente afferrasse in quel momento in modo tangibile e definito il senso di tutto il lavoro che ha fatto. Spero di aver fatto questo quindi, di aver dato loro un po’ di senso rispetto ad un ambito che ignoravano.

Selenia Marinelli | nITro

NOTE

[1] Dalla descrizione del progetto mEte, in http://www.progetto-mete.it/mappa-sonora/, ultimo accesso 14/12/2017

 

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