Nuove sinergie tra passato e futuro. L’adattamento delle rovine di Can Taco

Tra le sfide più interessanti e complesse dei progetti archeologici dobbiamo menzionare le opere che hanno la finalità di rivelare le tracce del passato, dare significato ai principi insediativi, rendere tali spazi evidenti in grado di accogliere il presente.

Toni Gironès, Adattamento delle rovine di Can Taco. Foto di Aitor Estevez

L’intervento realizzato da Toni Gironès per l’Adattamento delle rovine di Can Taco nello spazio naturale di “Els Turons de les tres creus”, a Montmelò-Montornès del Vallès, si mostra come una proposta coraggiosa e innovativa. In un territorio fortemente antropizzato e frammentato la scelta progettuale è stata quella di salvaguardare le tracce esistenti rimarcandole e segnandole con un sistema di terrazze.

Progetto per l’adattamento delle rovine di Tan Taco. Immagine di Toni Gironès
Progetto per l’adattamento delle rovine di Tan Taco. Immagine di Toni Gironès
Progetto per l’adattamento delle rovine di Tan Taco. Immagine di Toni Gironès

Il tutto comunica la forza della matrice originaria, delle trame riemerse. Ambiente costruito e naturale, archeologia e rinnovamento si fondono nell’intervento di recupero. L’architetto struttura lo spazio, plasma la materia antica con un sistema massivo e, al contempo, fragile, nell’uso di telai metallici in cui sono incastonate delle pietre recuperate dal sito. In questa azione di riuso del passato e dell’ambiente, Gironès riordina il sistema ambientale. Si accede nell’area archeologica, dove si trovano i resti di una domus romana del II secolo a. C., da un piccolo bosco di querce, attraverso un percorso sinuoso. Il sito, in seguito alla realizzazione della via Augusta, aveva perso la sua funzione strategica. L’intervento lavora sul limite, sul bordo mediante la costruzione di nuove mura. I materiali che formano questi nuovi confini sono recuperati dalla terra e dal pietrame presenti in loco, appartenenti ad una antica cava romana. Il sito conserva la sua autenticità in questa ritrovata forza plastica, in cui il passato, la storia e l’archeologia si legano inesorabilmente a temi desunti dall’arte, dalla scultura e dalla relazione tra costruzione e paesaggio.

Il sito di Tan Tacos prima e dopo l’intervento. Immagine di Aeroproduccions

Riemerge una letteratura che appartiene a scultori come Oteiza e Chillida, alle opere di Munari degli anni Cinquanta come Positivo-negativo, in cui la relazione tra figura e sfondo era attuata mediante un’azione di sottrazione e di scavo. In questa ritrovata sinergia tra le tematiche del riuso della storia e della materia, scopriamo nella povertà dei materiali un’energia che si rinnova, in quanto appartenente alla stessa terra, e che offre parallelamente un nuovo sguardo, un nuovo punto di vista nella relazione tra antico e nuovo.

In un bel saggio di Pierre Picon, Le riutilizzazioni architettoniche nella storia, l’autore ripercorre l’evoluzione dell’atteggiamento che abbiamo avuto nei confronti del riuso delle fabbriche. I punti di crisi risiedevano da un lato in un atteggiamento funzionalistico che bloccava il rapporto con la forma, dall’altro nel ritenere monumenti solo quelli antichi. Da tempo abbiamo assistito a una evoluzione nel pensare aperto e mutabile il rapporto tra forma e funzione e parallelamente nel considerare monumenti non solo le opere dell’antichità ma tutte quelle che segnano la cultura di un contesto urbano, includendo le archeologie industriali, i siti quali cave, aree dismesse, sino a incorporare i bunker edificati nel Novecento che, per molti versi, rappresentano un’archeologia moderna.

È evidente che la storia ha interpretato sempre il mutamento di funzioni, necessità e materiali. Scriveva Aldo Rossi nell’Autobiografia scientifica [1], il suo testo più complesso, pubblicato per la prima volta in America: «Il doppio senso del tempo, atmosferico e cronologico, presiede ad ogni costruzione; questo doppio senso dell’energia è ciò che ora vedo chiaramente nell’architettura, come potrei vederlo in altre tecniche o arti» (Rossi 2005, p. 8). Il tempo, secondo Rossi, vive nella duplice natura di processo e di consumo delle cose. Il progettista così spiega il cambio di rotta: «Nel mio primo libro, L’architettura della città, identificavo questo stesso problema con il rapporto tra la forma e la funzione; la forma e presiedeva alla costruzione e permaneva, in un mondo dove le funzioni si modificavano continuamente e nella forma si modificava il materiale. Il materiale di una campana si trasformava in una palla di cannone, la forma di un anfiteatro in quella di una città, quella di una città in un palazzo» (Rossi 2005, p. 8). Porre l’accento sul tempo atmosferico e sulla trasformazione della materia apre il campo ai temi del riuso, della riconversione, che oggi chiariscono il peso sempre più importante che diamo a questi interventi. Siamo consapevoli che la storia riusava i materiali e le spazialità: pensiamo all’uso spregiudicato nel Medioevo di materiali desunti da fabbriche romane, rimontati secondo un nuovo lessico e una nuova composizione, o all’atteggiamento analitico in epoca rinascimentale, in cui il monumento veniva non solo rianalizzato attraverso un curato rilievo, ma certamente completato secondo una costruzione che dava senso alla rovina.

Superata la visione ottocentesca, che in nome della salvaguardia dei monumenti operava profonde manomissioni dei medesimi (basta analizzare tutta la ricerca teorica e progettuale di Viollet-le-Duc), oggi i temi del rinnovo e del riuso si caricano di valenze ambientali: pensiamo al progetto di Toni Gironès, dove il sito viene compreso nella sua accezione più ampia e profonda, che include la sua evoluzione, la compresenza di fattori antropici e naturali, come nel caso delle cave estrattive, che hanno offerto le materie per l’intervento di recupero.

Progetto per l’adattamento delle rovine di Tan Taco. Immagine di Toni Gironès
Progetto per l’adattamento delle rovine di Tan Taco. Immagine di Toni Gironès
Progetto per l’adattamento delle rovine di Tan Taco. Immagine di Toni Gironès

Così l’Adattamento delle rovine di Can Taco mostra come l’idea di tempo come processo abbia sostituito quello tradizionalmente inteso, congelato in un rapporto biunivoco tra forma e funzione. Nell’analizzare il sito archeologico dentro una storia di fratture ed evoluzioni, comprendiamo come la scelta dei tralicci di ferro rievochi non solo il senso del muro e del limite (adattamento alla forma) ma anche la trasformazione del contesto urbano fortemente industrializzato (adattamento all’evoluzione). Riuso, materia, simbolo ridefiniscono i limiti della dimensione archeologica.

Toni Gironès, Adattamento delle rovine di Can Taco. Foto di Adrià Goula

In parallelo, mentre l’architettura della memoria generava ambienti ancora definiti, la grande trasformazione della visione del paesaggio avviene nei primi decenni del Novecento dagli artisti che incominciano a ideare il mondo esterno attraverso una interpretazione bidimensionale, mentale, traslata: basta rivolgere lo sguardo a tutta la pittura astratta, da Kandinskij a Klee, da Mondrian ad Albers, da El Lissitzky a Malevich. La stagione delle avanguardie storiche ha aperto la strada a un modo nuovo di concepire la relazione inestricabile tra interno ed esterno, tra natura e artificio, tra memoria, paesaggio e archeologia. Kandinskij aveva ipotizzato la composizione basata sulla triade punto, linea e superficie. Tre strutture concettuali, fisiche, compositive, territoriali e vettoriali, di forze che innescano azioni. Ma è stato Klee che ha realizzato un modo di pensare al territorio come proiezione di linee reali e immaginarie, fatte di trame e tessuti. Oggi vediamo tradotta, in principi formali e figurali, la relazione tra memoria, archeologia e contesto, grazie alla letteratura artistica della astrazione, che ha svolto un ruolo fondamentale nel proporre una nuova interpretazione del paesaggio, che necessita di un progetto di riconoscimento e disvelamento. I territori oggi sono meno marcati, vivono una condizione sempre meno delimitata, anche il bordo diventa meno forte.

È una idea di coesione, di continuità, in cui le maglie, le materie corrugate, gli avvallamenti sono combinati in un tutto continuo. Entriamo in una interpretazione che prende corpo nella seconda metà del Novecento, a causa delle trasformazioni sociali, culturali e politiche, sullo sfondo di un rinnovato interesse per l’ambiente. Negli anni sessanta e settanta nascono nuove tendenze nell’America che stava modificando gli statuti mondiali, sollecitata dal mondo dei media, sullo sfondo di una rivoluzione che incontrava la nuova visione del corpo, inteso come strumento di indagine, nelle esperienze della Body Art e del Fluxus, ma soprattutto della Land Art di Richard Long, di Robert Smithson, di Walter De Maria, di Michael Heizer, che di fatto consideravano il territorio, il paesaggio, la memoria come una trama di relazioni, su cui scrivere, trascrivere, segnare, costruire nuovi riti. Siamo in una fase della storia dell’umanità in cui i temi della salvaguardia dell’ambiente, già introdotti da Richard Buckminster Fuller e da Frederick Kiesler con il Manifesto del Correalismo, pubblicato nel 1949, sull’idea di un’integrazione tra arte e natura, si fanno sempre più presenti e pressanti. Nel tempo questa visione del paesaggio diventa più intensamente cosciente, dopo gli sfruttamenti incondizionati del territorio, gli incidenti tecnologici, gli inquinamenti degli ambienti naturali causati dalle petroliere, le distruzioni dei polmoni verdi della Amazzonia. Il movimento Land Art aveva riportato al centro dell’interesse un’idea di luogo in cui la presenza dell’uomo interagiva in quel contesto con segni accidentali, minimi, nati dalla sua presenza. Ritorna così tutta la letteratura erratica, la dimensione arcaica del nomadismo, il camminare come processo conoscitivo: è la dimensione del flâneur, che trova nel Novecento la più alta letteratura, da quella ebraica di Walter Benjamin e di Paul Celan, sino a quella dello scrittore britannico Bruce Chatwin, che ha impersonificato la figura dell’intellettuale nomade. Attraverso i suoi scritti, ha consentito di rileggere il territorio come esperienza di viaggio, percorso, passaggio. Il suo lavoro diventa il fulcro di un nuovo modo di raccontare e di assimilare i contesti, ma soprattutto lo scrittore è in grado di scendere nelle spelonche del mito, per ricordarci l’origine delle cose. Ci ricorda nel testo Le vie dei canti [2] pubblicato nel 1987 che: “I nomi dei figli di Adamo sono una coppia di opposti complementari. Abele deriva dall’ebraico hebel e significa fiato o vapore: è un termine che si riferisce ad ogni cosa animata che si muove e che sia transeunte, compresa la sua vita. La radice di Caino sembra sia il verbo kanah: acquisire, ottenere, possedere, e quindi governare o soggiogare. Caino significa anche fabbro ferraio, e poiché in numerose lingue – perfino in cinese – le parole che significano violenza e assoggettamento sono collegate alla scoperta del metallo, forse è destino di Caino e dei suoi discendenti praticare le nere arti della tecnologia” (Chatwin 1988, p. 257). Lo scrittore ci fa comprendere la distinzione tra la cultura stanziale, che ha plasmato e piegato la natura, e quella erratica, del soffio, del flusso, che ha trovato con il territorio una relazione sinergica. Chatwin ci conduce dentro una nuova visione del mondo come fluire di esperienze e conoscenze. L’attraversamento consente di recepire altre dimensioni, incontrando e combinando culture e informazioni.

Vista aerea del sito di Tan Taco. Foto di Adrià Goula

Oggi, grazie a una rinnovata sensibilità ai temi ecologici, la memoria archeologica del territorio porta al suo interno queste tracce delle civiltà arcaiche, in cui il fango, le concrezioni rocciose hanno generato nell’immaginario dell’artista e dello scrittore viaggiatore una nuova estetica. Non solo, la Body Art e la Land Art definiscono una relazione da qui in avanti inestricabile tra corpo e spazio. Il paesaggio vive in virtù di un soggetto che muovendosi lo mappa, lo segna, lo impersonifica. Se investighiamo la natura processuale degli interventi dei landartisti possiamo comprendere molte linee di ricerca che oggi sono confluite nell’architettura della memoria contemporanea. Le opere di Richard Long, come A Line Made by Walking (1967), di Michael Heizer, come Displaced, Replaced Mass (1969) o di Robert Smithson, come Broken Circle/Spiral Hill (1971), consentono di ristabilire un contatto straordinario con i segni primigenei delle civiltà arcaiche. Questa corrente ha inoltre creato un vero e proprio antecedente in quanto forma d’arte, in fondo, trasmissibile solo attraverso lo strumento fotografico, individuando così lo scollamento del nostro tempo tra la memoria, il perdurare dell’evento e la temporalità della visione. Nel 1969 il movimento fu reso pubblico tramite il film per la televisione Land Art, grazie al lavoro del regista-operatore Gerry Schum. Le opere di questi artisti, effimere nella loro resistenza materiale, potevano essere fermate solo nell’istante di una pellicola. L’opera scompare con la fine della ripresa. Da queste esperienze leggiamo i semi di un modo di intervenire sulla memoria dei luoghi, tramite pressioni, rotte, direttrici, segni accidentali, in una materia che è processuale e sostanzialmente legata al tempo infinito della natura. Per quanto molti artisti che aderiranno alla Land Art provenissero da quella minimale, il movimento territoriale si oppone nettamente all’immagine metropolitana dei monoliti seriali, geometrici, che costruivano le gabbie e le strutture primarie della Minimal Art. Al contrario, dal territorio i landartisti recuperavano sia le materie sia i processi con cui interpretavano l’azione artistica. A questi, che avevano ritrovato nel paesaggio americano una nuova sinergia con la natura, dobbiamo un rinnovato interesse verso il concetto di tempo, che non è quello giornaliero, quanto millenario, che modifica il contesto, attraverso una lenta, inesorabile azione. Paradossalmente quest’arte effimera trova la sua cornice nei territori desertici, sospesi e privi di gravità. Certamente l’Aktionen di Joseph Beuys ci ha fatto entrare in una nuova modalità che interpreta la memoria come azione sociale nello spazio, dentro un’idea processuale. A Kassel nel 1982 aveva ideato una installazione vivente (Rimboschimento cittadino) all’interno del celebre evento Documenta 7, in cui progetta, nella città che si trasforma in memoria, in un lasso di tempo indeterminato, la sostituzione di 7000 pietre di basalto con alberi di quercia. L’idea nasceva dal desiderio di sperimentare il tema ecologico. L’artista spingeva la popolazione a una azione di coscienza, nell’adottare una materia inanimata, quale il basalto, a favore di un albero, segno della vita. Era suo desiderio trasformare il cuore della città storica in un paesaggio vivo e animato. Solo la cura dell’uomo poteva creare la sua opera d’arte. Beuys invitava la cittadinanza a riflettere su temi oggi vitali. Abbatteva i limiti temporali dell’azione artistica, tramite un rito collettivo che poteva durare nei secoli. Inoltre, Beuys rivendicava l’idea di una società di artisti, evocando, nel suo ruolo di sciamano, di capro espiatorio, di martire, rituali ancestrali.

di Antonello Marotta | nITro


[1] Rossi 2005 – Aldo Rossi, Autobiografia scientifica, Nuova Pratiche Editrice, Milano 2005.

[2] Chatwin 1988 – Bruce Chatwin, Le vie dei canti, Adelphi, Milano 1988.

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