Da tempo si discute sulla proposta da parte della NASA di musealizzare i siti storici degli allunaggi. Quale futuro attende il satellite terrestre? Ne parliamo con il prof. Stefano Catucci, docente di Estetica presso la Facoltà d’Architettura dell’Università di Roma Sapienza e autore del libro “Imparare dalla Luna”, nel quale riflette sull’eredità culturale della cosiddetta space age, alla luce di un possibile ritorno dell’uomo sulla Luna.
D.M. A distanza di cinquant’anni dalle prime missioni spaziali, il tuo lavoro reinterpreta il significato culturale che esse hanno avuto. Quali sono le ragioni di tale esplorazione del passato recente e che insegnamenti possiamo trarne per il futuro?
S.C. Mi sembra che dopo avere esportato fuori dalla Terra la competizione fra due grandi potenze terrestri e una specie di agonismo tecnologico senza precedenti, in questa seconda fase di esplorazioni ci siano buone premesse perché arrivi sulla Luna anche un’altra forma tipica del comportamento moderno: la tendenza a sacralizzare il passato recente. E a farlo, aggiungerei, senza chiedersi che tipo di eredità ci è stata tramandata, assumendo qualunque resto come una reliquia. Succede nei mercatini della domenica, in città, e sta per succedere anche sulla Luna. O almeno questa è la prospettiva aperta dalla proposta della NASA di proteggere i siti degli allunaggi storici. In sé, la trovo una proposta più che condivisibile: in fondo è un luogo su cui hanno posto piede finora solo dodici esseri umani e dove perciò le tracce sono rare. Ma credo sia anche importante chiedersi di che natura siano i resti, a quale scala del tempo appartengano, cosa significhi volerli conservare e perché solo ad alcuni oggetti, quelli ufficiali della prima e dell’ultima missione, venga assegnato un valore storico irrinunciabile.

Impronta di Buzz Aldrin sul suolo lunare. Through www.nasa.gov
Quello che impariamo dalla musealizzazione della Luna non riguarda forse tanto il futuro, quanto il presente: è una lente di ingrandimento per quanto accade sulla Terra, il nostro muoverci come turisti e il nostro feticismo. E se proviamo a vedere nei siti delle missioni Apollo quello che Walter Benjamin aveva visto nei Passages di Parigi, un’immagine dialettica della storia, nel nostro caso della postmodernità, possiamo anche intendere questo riesame critico come una specie di esercizio di risveglio. Il titolo del libro è un evidente calco di quello di Robert Venturi su Las Vegas. In questa città dove i segni si accumulano gli uni sugli altri Venturi aveva letto l’affermazione di un’estetica pop e postmoderna, appunto. Nel vuoto della Luna i pochi segni presenti chiedono di essere salvati da una deriva feticistica, e semmai di essere reinterpretati come un gioco, termine che nella tradizione dell’estetica filosofica si unisce spesso alla pratica dell’arte.
D.M. La prima “space age” ha segnato il passaggio della luna da oggetto altro a spazio dell’esperienza, si parla di alterità desublimata, è ancora possibile considerare lo spazio e la luna in termini di utopia?
S.C. Intanto lo sono le immagini della Luna e dello spazio: la bandiera piantata in uno spazio prima inconcepibile, gli uomini bardati in tute che li trasformano in strane marionette, o anche la catastrofe annunciata dagli incidenti accaduti nelle missioni, sono lì a dimostrare che la carica utopica di quell’impresa non si è ancora esaurita. Nel libro sono citati, in particolare, due video di Aleksandra Mir e di Larissa Sansour, artiste che raccontano una forma diversa di liberazione tramite l’appropriazione del gesto di rottura rappresentato dal camminare e piantare una bandiera sulla Luna. Nel caso di Mir è l’idea della “prima donna sulla Luna”, in quello di Sansour è l’immagine della “prima palestinese”. Ad ogni modo lo spazio è rimasto l’unica frontiera possibile di un sublime naturale, come il sublime è stato fino all’inizio dell’Ottocento, e come tale credo sia ancora un serbatoio di utopie possibili.

Larissa Sansour, A Space Exodus, 2009. Through www.larissasansour.com
D.M. La riflessione parte dall’analisi dell’apparato iconografico di quegli anni. Quale significato dai dunque all’azione del guardare e che ruolo ha lo sguardo nella scoperta e definizione di noi stessi?
S.C. Credo che l’apparato iconografico di quegli anni, nonostante tutto, non sia stato ancora indagato come dovrebbe. Si è riflettuto poco, per esempio, sull’impatto che le immagini dello spazio, insieme a quelle di forme popolari di comunicazione come la televisione o il fumetto, hanno avuto sulla nostra cultura estetica. Le sfere del cosmo sono forme semplici, antimoderne per certi aspetti, eppure è proprio a partire dalla bellezza di quelle immagini che le forme semplici sono tornate ad abitare l’arte contemporanea. O forse c’è solo una coincidenza di tempi che però, come sempre, non è mai solo una coincidenza di tempi. Guardare la Terra ha poi sempre un effetto straniante. Farlo dallo spazio ancora di più, perché la si vede intera e si viene spinti a un’autoriflessione su di sé e sull’umanità. Avviene sempre con il paesaggio, quando lo si guarda da un punto di vista estetico, ma nel caso dello spazio questa esperienza è radicalizzata. Questa occasione per definire diversamente l’umanità è stata però in gran parte mancata. Siamo andati nello spazio per una motivazione molto terrestre, la Guerra Fredda tra la due superpotenze dell’epoca, e in fondo siamo rimasti freddi di fronte alla possibilità che quelle immagini ci cambiassero realmente.
![Foto della terra, da una distanza di circa 45 000 km, scattata il 7 dicembre 1972 dall'equipaggio dell'Apollo 17 e conosciuta con il titolo di "Blue Marble", By NASA/ GSFC/ NOAA/ USGS [Public domain], via Wikimedia Commons](https://onnoffmagazine.files.wordpress.com/2016/02/999px-nasa_blue_marble.jpg?w=470&h=482)
Foto della terra, da una distanza di circa 45 000 km, scattata il 7 dicembre 1972 dall’equipaggio dell’Apollo 17 e conosciuta con il titolo di “Blue Marble”. Credits By NASA/ GSFC/ NOAA/ USGS [Public domain], via Wikimedia Commons
D.M. L’astronauta Bill Anders della missione Apollo 8 afferma: “Abbiamo fatto tutta questa strada per esplorare la Luna…e la cosa più importante che abbiamo scoperto è stata la Terra”. Qual é il senso e le conseguenze culturali di tale scoperta?
S.C. Come dicevo, credo che il senso di questa scoperta non sia ancora stato del tutto elaborato. Per un verso si è trattato di viaggi in continuità con quelli di Magellano, cioè con esplorazioni che mostravano agli uomini i loro spazi di vita come punti da individuare tramite una proiezione condotta dall’esterno. Lo scrive Sloterdijk, ed è vero. Per un altro si è trattato di una rottura che ha prodotto cambiamenti non sempre visti nella giusta luce. Forse il movimento ecologista, e per un altro verso l’arte ambientale di quegli anni, come pure il libro di Lovelock su Gea, sono state le reazioni più coerenti alla scoperta della Terra che si è verificata durante la corsa alla Luna.
D.M. Rispetto alle prime missioni spaziali esistono delle differenze fondamentali nei processi di comunicazione tra la terra e lo spazio. Se la televisione era stata il principale medium negli anni 60′, che implicazioni ha la comunicazione diretta, possibile oggi nell’era del web e dei social network?
S.C. Non so bene valutarlo, se non per la parte che ipotizza una maggiore interazione con le sonde esploratrici, e quindi con le immagini trasmesse. È probabile che gli spettatori non siano più solo terminali passivi delle informazioni decise dai mezzi di comunicazione, com’era negli anni Sessanta e Settanta. Credo che però la differenza maggiore la farà l’eventuale fondazione di colonie più o meno permanenti, come quella che la Russia ha annunciato di voler installare sulla Luna già entro il 2030. In quel caso il fatto di poter comunicare con altri uomini in tempi rapidi, e di poter avere canale di andata e ritorno dell’informazione non più solo gestito da un apparato di controllo e di governo, potrebbero rappresentare le novità più importanti, sempre ammesso che tale comunicazione venga resa possibile. In fondo è pur sempre la sorte di uomini come noi a richiedere che vengano stabiliti contatti non preordinati, e dunque sono questi gli spazi che vedo più suscettibili di trasformazione: del resto anche nelle vicende della Iss, la Stazione Spaziale Internazionale, a interessarci sono più spesso le vicende degli astronauti a colpirci ed è la possibilità di avere accesso a loro in un modo che le missioni non avevano programmato. Non si tratta solo di una comunicazione diretta. A volte si può trattare anche di un video, e persino di un video montato ad arte: qualcuno avrà visto il comandante Chris Hadfield, canadese, cantare nel 2013 proprio nella Iss la canzone Space Oddity di David Bowie.
È un cambiamento di strategia comunicativa reso possibile dall’èra del web, ma che fa perno sulla produzione di immagini relativamente indipendenti dai sistemi di controllo, quindi sull’aumento della popolazione che avrà avuto modo di viaggiare nello spazio. Il punto fondamentale, ad ogni modo, è il superamento di quel sistema chiuso, autoreferenziale, che permetteva a mezzi come la televisione di produrre immagini che valevano quali attestati di prova per eventi costruiti, a loro volta, su misura per le immagini televisive. Il cortocircuito della post-modernità.
D.M. In vista della possibilità di un ritorno alla luna e dell’esplorazione di altri pianeti, cosa abbiamo imparato e cosa ancora può insegnarci la luna?
S.C. Forse non abbiamo ancora imparato quello che avremmo dovuto: come sia “naturale” per gli uomini il cosmopolitismo, come sia fragile la Terra, come sia cruciale la salvaguardia dell’ecosistema, cosa sia la bellezza delle forme semplici, e anche magari a quale migrazione dovremo prepararci di qui a tre miliardi di anni, quando il Sole morirà, come ha provato a raccontare con acume, e non senza ironia, Jean-François Lyotard.

“Jumpin’ Jack Flash Schmitt”, Disegno di Ulrich Lotzmann, 2003. Through www.technovelgy.com
La Luna può insegnarci a capire che esistono comportamenti non intenzionali che possono essere letti come attività artistiche, come pure che esiste una dimensione, quella del gioco, dalla quale si può ripartire forse per superare quella mancanza di “lunarità” di cui hanno sofferto le missioni della prima Space Age.
Davide Motta | nITro