Co-everything. Co-nversazione con Francesco Cingolani

Ora di pranzo… intorno ad una tavolata di amici e colleghi conosciamo Francesco Cingolani. Gira l’Italia per il suo Intraverso 2013, un semigiro dell’innovazione che condivide con la sua compagna Valentina. Francesco è un architetto. Italiano, di origine marchigiana, stabilitosi da anni a Parigi dove ha fondato insieme ad altri partner il coworking Super Belleville. Scrive sul suo blog @Immaginoteca.

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D.P. Cosa è per te il CO?

F.C. Per me il CO è un modo di lavorare e fare progetti in modo aperto, in maniera interconnessa attraverso la rete. Questa modalità credo sia ben espressa dal concetto di network thinking. Perché questa modalità è ritenuta interessante oggi? Se pensiamo alle reti, fatte di nodi e di connessioni, ogni nodo è facilmente raggiungibile. Nell’era dell’accesso, quello su cui occorre lavorare non è il contenuto, bensì il collegamento.

Data la facilità di accesso al brainstorming globale, è nostro compito indagare questi fenomeni e proporre modalità di governo, per far sì che il processo non sia abortivo ma che conduca ad un risultato soddisfacente. Perciò vanno trovate formule di governo del processo.

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D.P. Perchè pensi nascano sempre più progetti CO?

F.C. In generale penso che la produzione in sè sia diventata poco interessante. Vedo i giovani sempre meno interessati a lavorare nei grandi studi per produrre architettura in modo tradizionale, per dedicarsi invece alle logiche di processo e alla costruzione di networks. Tutto questo per permettere all’architettura di essere un risultato che tenga conto della complessità delle relazioni in atto.

E’ altrettanto evidente che il mito dell’architetto che porta a termine un progetto da solo non è più perseguibile, perciò vi è la necessità di aprirsi e sperimentare l’interdisciplinarità come riferimento metodologico. Ciò che il metodo collaborativo propone è la scrittura individuale di un progetto e la sua verifica da parte del gruppo.   

Un progetto che evidenzia con molta chiarezza il cambiamento in atto, e l’importanza che viene attribuita al processo, é stato presentato alla Biennale del Design di Istanbul 2012, co-curata da Ethel Baraona, e incentrata sulla cultura collaborativa e DIY. All’interno della manifestazione è stato presentato un progetto costituito esclusivamente da files di oggetti di design stampabili attraverso stampanti 3d. Questo file è stato inviato in varie parti del mondo e i vari oggetti stampati sono poi stati esposti all’interno della mostra. Ogni oggetto era diverso dall’altro a seconda della macchina e dei materiali utilizzati. A parità di file originario, si ottenevano una molteplicità di risultati.

L’interesse per il processo credo sia spontaneo in questa fase di transizione in cui è prioritario interrogarsi sul senso di ciò che va fatto e su come dovrebbe essere il prossimo futuro, piuttosto che continuare a produrre secondo logiche obsolete e ormai immotivate.

D.P. Appare che in un momento di crisi si ritorni alla collaborazione, quasi come fosse un percorso a ritroso verso un ideale punto zero. Ma ci siamo già passati veramente in passato, o stiamo assistendo a qualcosa di realmente innovativo?

In che maniera le pratiche di co-design stanno trasformando la figura professionale dell’architetto?

F.C. Vi riporto le mie esperienze lavorative appena uscito dall’Università (italiana). Appena trasferitomi in Spagna, nel 2010, quando la crisi del mercato immobiliare era già molto diffusa, mi sono fin da subito accorto che la maggior parte degli studi si occupa di processi urbani più che di progetti architettonici. Da qui ho iniziato a chiedermi se questo fosse un segnale evolutivo o un passo indietro per la professione dell’architetto.

tweet cingolani

La crisi senza dubbio ha inciso, ma penso che il vero motivo di questo fenomeno coincida con un reale allontanamento dall’oggetto, dal risultato finale e con un interesse via via crescente per ciò che presuppone e precede il progetto. L’architetto è chiamato ad interpretare e scegliere. La visione distorta secondo cui il computer faccia tutto da sè è un falso mito che circola all’interno del mondo accademico. 

L’architetto non è solo colui che costruisce, ma che si occupa dello spazio in generale, di come produrlo, di come gestirlo, ecc. Ad oggi vedo la professione dell’architetto indirizzarsi verso le attività di service design e di consulenza strategica per i progetti. Lo studio di architettura diventa un’agenzia di servizi.

D.P. In che modo il metodo collaborativo  può contribuire a migliorare le nostre città?

F.C. Ho sempre pensato che ogni città debba avere almeno un coworking per attirare talenti, questi spazi ormai determinano il livello di accessibilità della città, soprattutto per uscire da soluzioni problematiche con modalità lowcost. Conosco decine di professionisti affermati che sarebbero pronti a mettersi in gioco e provare l’esperienza del co-working.

Reputo il coworking un modello leggero replicabile sia per la dimensione metropolitana, ma in particolare per centri urbani di piccola-media dimensione. A ciò si aggiunge anche una recente declinazione in via di sviluppo, ovvero quella del coworking rurale, che sto iniziando a seguire con sempre maggiore interesse. Penso che in definitiva il coworking può essere pensato come una nuova infrastruttura civica per il futuro.

D.P. Puoi farci degli esempi?

F.C. Un ottimo esempio di struttura collaborativa è UnMonastery, fondato su un’organizzazione totalmente orizzontale, dove un semplice commento di approvazione su un tema non acquisisce mai lo stesso peso decisionale rispetto ad un’elaborazione più complessa e strutturata espressa secondo le stesse modalità. Le uniche due regole su cui si basa UnMonastery sono:

1. Se non lo fai tu pensa che non ci sarà nessun altro a farlo;

2. Fai solo proposte che sei in grado di portare a termine da solo.

Quindi: se lo dici, fallo!

Proprio come il concetto che è alla base della cultura DIY (Do It Yourself). Non bisogna mai aspettarsi che tutti partecipino al progetto, perchè questo non accade quasi mai. Anzi direi di più, è prestando troppa attenzione al rumore causato dalla finta partecipazione, quella disinteressata o generata da poca motivazione, che si genera solo confusione. Quanto più sei dedito alla risoluzione di un problema, tanto più la tua proposta avrà maggiori opportunità di essere approvata. Per questo motivo è determinante il ruolo emergente del project influencer, a cui gli architetti stanno guardando con sempre maggiore attenzione. 

L’esperienza di UnMonastery è un’esperienza di co-design del tutto diversa rispetto a quella del progetto DreamHamar in Novergia, dove la struttura collaborativa era gerarchizzata e quindi di tipo piramidale. In quel caso, dovendoci interfacciare con la pubblica amministrazione, era impensabile approcciare il progetto con una struttura più verticale, per ovvie ragioni di decision making, di gestione del budget e degli ingaggi e di individuazione della figura responsabile delle scelte intraprese, ovvero l’architetto.

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In tutti i processi collaborativi, anche se il processo è aperto, è necessario individuare un responsabile (curatore, coordinatore, ecc…). Se ci pensiamo, un neolaureato in genere non è minimamente preparato ad affrontare questo genere di aspetti. La formazione accademica italiana non prevede un’attitudine per lo sviluppo di processi.

D.P. Come si crea una community operativa?

F.C. Penso che un concetto strategico sia la trasparenza. Fin dalle prime fasi va fatto un grande sforzo per far comprendere l’utilità del processo, quali sono i ruoli, qual’è il budget di spesa e a chi/cosa è destinato e rendere molto chiari gli obiettivi che si intende raggiungere. 

Un secondo aspetto fondamentale è la comunicazione, sia online che offline. È necessario un grande lavoro per veicolare il messaggio nella maniera migliore, ed è importante farlo attraverso i social network senza però dimenticare i media tradizionali (tv, giornali, radio, ecc). Attraverso i progetti prima citati ho sviluppato competenze e attitudini da comunicatore, che di fatto costituiscono una parte cospicua del mio curriculum. 

L’esperienza maturata mi porta oggi ad interessarmi anche all’aspetto emozionale delle reti, il sentiment che esse trasmettono. Credo sia molto importante trasmettere l’idea che le reti sono un prodotto dell’uomo e quindi non devono apparire come un freddo strumento tecnologico. Questo mi porta spesso a percepire già in anticipo se un tweet che ho in mente di lanciare avrà un seguito importante oppure se la mia “influence” sui contatti sta aumentando o diminuendo. 

Si tratta di stabilire un rapporto empatico con le reti, provare ad umanizzare il web e cercare di organizzare una comunicazione in modo più organico possibile, e questo è più facile ottenerlo su Twitter che su Facebook. Oltre ai social, il blog è un altro strumento che si è rivelato molto utile e potente in questi anni. Quando nel 2012 scrissi un post sul mio blog nel quale raccontavo che avrei smesso di lavorare per sei mesi, sapevo sarebbe stato un post che avrebbe attirato l’attenzione di molti per la delicatezza del tema trattato. Infatti così fu, il post ebbe un seguito notevole al di là di ogni ragionevole aspettativa.

D.P. I sistemi collaborativi in quale modo ridefiniscono il rapporto tra accademia e società?

F.C. Ritengo che la trasversalità e la interdisciplinarità siano i fattori chiave del nostro tempo. che trovo siano ben sintetizzati da una foto che ritrae un artista di strada mentre porta con sé una moltitudine di strumenti musicali. In sostanza un one-man-band. Questa immagine fu utilizzata da Ecosistema Urbano nella fase successiva al progetto DreamHamar, per il quale collaborai, per far capire quale fosse il ruolo di noi architetti all’interno del processo.

streetartist ecosistema urbano

Di recente a SuperBelleville abbiamo ospitato un workshop dal titolo LabIDEA, incentrato sui temi del co-learning e sul futuro dell’università. Molte delle soluzioni che sono state elaborate erano orientate all’ibridazione dei saperi e alla trasversalità che sappia mettere in più stretta connessione l’università e la società, mettendosi al servizio delle questioni reali. La scuola del futuro dovrebbe riuscire a focalizzare la propria attenzione sul processo, distaccandosi maggiormente dal risultato finale.

Un altro fattore decisivo che credo sarà sempre più determinante è la velocità di apprendimento. Ciò comporterà sia un’evoluzione antropologica sia un maggiore grado di comprensione dei contenuti. In quest’ottica evolutiva la scuola dovrà essere intesa come un processo aperto secondo il modello del lifelong learning, piuttosto che come una carriera chiusa che termina dopo circa cinque anni.

Tra le proposte emerse dal workshop, vi era anche quella che proponeva un abbonamento ad un intero ecosistema dell’educazione composto da differenti strutture disciplinari tra i quali è possibile scegliere di mese in mese, sulla base delle proprie attitudini o necessità. Un pò come il modello dei workshop, ma portarlo ad un livello di maggiore integrazione con il processo di formazione, rispetto ad oggi dove i workshop assumono il carattere di attività collaterale rispetto alla propria carriera accademica.  

Nel progetto DreamHamar abbiamo provato ad avvicinare questi due mondi, infatti furono siglate delle partnership con diverse università che permisero agli studenti di lavorare su un progetto reale, contribuendo concretamente al suo sviluppo.

Se da una parte la scuola del futuro dovrà concentrarsi sulla risoluzione dei problemi concreti dell’attualità, dall’altra dovrà dedicarsi alla ricerca che indaghi le soluzioni per il futuro, predisponendo lo studente a comprendere meglio il rapporto con le tecnologie, gli aspetti legati alla produttività nella professione e in definitiva ad occuparsi del miglioramento dello stile di vita.

Un caso molto interessante che suggerisco di conoscere è quello del movimento Knowmad, promosso da Edward Harran, che propone un modello apprendimento definito project based, contrariamente al modello career based a cui siamo abituati.

Questo modello è così radicale che credo azzeri l’idea di accademia che conosciamo fino ad oggi. Nel caso dell’architettura, in questo sistema le scuole e il sapere dell’architettura di fatto ne uscirebbero sgretolate. Resterebbero solo i progetti di architettura, che vedrebbero la luce secondo presupposti completamente rinnovati.

D.P. Sei anche appassionato ed esperto di design computazionale. Che tipo di risorsa è per il tuo lavoro?

F.C. Trovo molte affinità con il design parametrico e computazionale. Attualmente credo che esso si presti meglio per soluzioni ingegneristiche, per la risoluzione di problematiche complesse connesse ad aspetti strutturali come nel caso del Museo Guggenheim di Bilbao o il progetto della  Philarmonie di Parigi di Jean Nouvel, per il quale ho collaborato. In questo caso è stato adoperato il programma Grasshopper. Credo tuttavia che l’aspetto più interessante della questione non sia tanto la ricerca formale, quanto la possibilità di utilizzare i dati, presenti e accessibili in quantità sempre maggiore, al fine di in-formare l’architettura, darle forma attraverso i flussi di informazioni, utilizzando e interpretando i dati provenienti dalla realtà.

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Philarmonie di Parigi. Arch. Jean Nouvel. Plastico di progetto.
Foto tratta dall’album: http://www.flickr.com/photos/philharmoniedeparis

Un’architettura controllata da parametri strutturali, ambientali ma anche sociali, che possano vedere un coinvolgimento attivo della cittadinanza. E’ questo un paradigma emergente che si pone in maniera del tutto antitetica rispetto al paradigma che ha costituito le fondamenta dell’architettura del passato, determinata attraverso un segno unificante e sintetico, mutuato da un pensiero lineare.

L’architetto si configura così come un medium, una figura in grado di monitorare tali flussi di informazioni, controllandoli e usandoli al meglio attraverso gli strumenti digitali, al fine di condurre il processo verso il risultato finale. Chiaramente questo processo creativo è open, e quindi la sua forza risiede nello scambio trans-disciplinare a cui induce per condurre ad una soluzione efficace.

Un esempio interessante, attualmente in fase di prototipazione, è il progetto Dancing with nature per Pylons of the Future. in cui ogni pilone è diverso dall’altro. La struttura biforcata ed esile vuole evocare la forma del germoglio, ed è regolata da parametri quali l’inclinazione del terreno, la tensione del cavo elettrico, ecc. Ciò fa sì che non vi sia un pilone uguale ad un altro. Ognuno si adatta al contesto e alla posizione specifica in cui si colloca.

La sfida del progetto risiedeva nel raggiungere un’elevato grado di integrazione dei piloni con la natura e assegnare un valore estetico ad elementi che notoriamente ne sono quasi sempre stati sprovvisti. Il processo ha visto coinvolti una serie di figure professionali eterogenee, in un crossover disciplinare.

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D.P. Come nascono le tue collaborazioni? Ci sono aneddoti interessanti?

F.C. Tra le collaborazioni più interessanti e durature, vi è quella con Domenico Di Siena | Urbano Humano non saprei dire bene quando abbiamo iniziato a fare cose insieme. Il primo progetto ufficiale è stato Algomas Arte Rivoluzionario, un manifesto artistico che nel 2006 preannunciava la grande rivoluzione della nuova era digitale, con un forte focus sulla partecipazione e lo slittamento dal contenuto al contenitore. Domenico è sempre stato fonte di ispirazione e penso che insieme abbiamo imparato moltissimo.

Algomas, come molti altri progetti che ho fatto con Domenico, sono nati da una chat o da twitter. Non saprei dire se senza questi strumenti saremmo riusciti ad intraprendere un progetto insieme. Mi piace vedere e stare con la gente con cui lavoro, ma credo sia anche importante lavorare a distanza per potersi estraniare dal processo creativo.

Un secondo aneddoto riguarda la mia collaborazione con Hugh Dutton Associés a Parigi nel 2009, quando ho creato il blog aziendale complexitys.com. Nessuno capiva a cosa sarebbe servito, ma mi hanno lasciato fare. All’epoca ero stipendiato e, quando ho deciso di “cambiare vita” per andare a lavorare a Madrid con Domenico ed Ecosistema Urbano, Hugh Dutton mi disse: “vorremmo che tu continuassi a lavorare con noi e a portare avanti il blog”. È così che è nato il mio lavoro di consulente in comunicazione.

L’altro piccolo aneddoto riguarda indirettamente Tomás Saraceno, un artista che seguo con interesse da quando ho visitato alla Biennale di Venezia la mostra Costruire Nuovi Mondi sempre nel 2009. A maggio ho visto passare un annuncio in cui cercavano un collaboratore a Berlino e decisi di cogliere l’occasione. Lavorare con lui era uno dei miei principali obiettivi. Risposi alla chiamata, ma senza ottenere risposte per i primi dieci giorni. Allora pensai: come potrei farmi aiutare dalla mia rete? Così ho postato su Facebook un appello e sono entrato in contatto con una ragazza che lavorava nel suo studio, la quale mi confermò che effettivamente stavano valutando i candidati e che mi avrebbero chiamato per un colloquio. Volai a Berlino ma la vicenda non ebbe l’esito sperato.

La cosa sorprendente è che nelle stesse settimane mi chiamarono dalla Columbia University per partecipare come esperto di design parametrico al workshop Paris Atelier insieme…indovinate a chi? Tomás Saraceno! Quando uno dice serendipità! Questo progetto è fortunatamente andato in porto e i risultati del workshop sono stati esposti al Palais de Tokyo a Parigi.

Quando voglio fare qualcosa raramente chiedo il permesso o mando un curriculum. Inizio a fare da subito: scrivo un post sull’argomento, pubblico una cosa su facebook o twitter, mando una mail o organizzo un evento. Ovviamente su 100 di questi tentativi ne riescono 10, ma credo sia sistematico oggi, in una società iperconnessa e ramificata come la nostra.

Dario Pompei + Saverio Massaro | nITro

La cover è un omaggio al progetto Farine 00 che Francesco porta avanti a Parigi con la sua compagna Valentina Brogna

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