Il carattere di ogni ambiente antropizzato è restituito, sottoforma di immagine sintetica, dai suoi tetti. Che si tratti di un aggregato urbano, in cui essi costituiscono una massa solida e compatta, o di un contesto prevalentemente naturale, punteggiato da costruzioni isolate, il tetto costituisce, il più delle volte, l’elemento distintivo di un ambiente abitato. Nel secondo caso, con maggiore evidenza ed essenzialità, il tetto reifica un racconto: quello del rapporto tra sé e ciò che esclude, tra l’estensione del mondo ospitante e la misura del luogo che genera; nella natura dominante, insomma, sembra apparire un archetipo. Così si presenta allo sguardo la Cappella nel Bosco.
Progettata da Gunnar Asplund nel 1920, è nascosta all’interno del grande cimitero sud di Stoccolma, realizzato, insieme a Sigurd Lewerentz, nel lungo arco di tempo che va dal 1915 fino al 1961. Invisibile da lontano, la cappella si situa in un’area appartata del complesso cimiteriale: lasciandosi alle spalle l’altura assolata dove svetta la grande croce, si devia, dal viale diretto a sud, verso stretti sentieri che penetrano nell’oscurità di una foresta fitta, fino a bucare il muro in cemento che cinge l’area della cappella.

Gunnar Asplund – Sigurd Lewerentz, SKOGSKYRKOGÅRDEN, Stoccolma 1915-61
«[…] La situazione non permetteva una volumetria dell’edificio abbastanza grande da opporsi, come un monumento, all’ambiente naturale. E così – per evitare le mezze misure – l’edificio è stato compresso fino a risultare modestamente sommesso, insinuato nel bosco, circondato da abeti e pini che torreggiano col doppio dell’altezza» [1].
Il lento approssimarsi al piccolo edificio svela poco a poco, sfocate tra le fronde degli abeti, le forme pure del tetto di legno e catrame.

Gunnar Asplund, LA CAPPELLA NEL BOSCO, Stoccolma 1918-20 (Disegno dell’autore)
Poco prima di raggiungere la meta, il cammino, che punta dritto al portale di accesso, è rallentato, però, dalla visione di un misterioso rigonfiamento del terreno. Una piccola porta chiusa segnala la presenza di una stanza, scavata, per circa metà della sua altezza, nello spessore del suolo, e ricoperta, come un tumulo antico, da una volta foderata di terra: è il mortuario dove vengono deposte le salme in attesa della sepoltura.

Il vestibolo d’ingresso
All’immagine ruvida di un suolo che si increspa per ospitare corpi senza vita, risponde quella, rassicurante e protesa al cielo, di un oggetto fluttuante su dodici colonne, posate a terra come i tronchi degli alberi vicini. I piedritti, privi di stilobate, spingono verso l’alto il peso del tetto che sorreggono; un sottilissimo abaco nero segna il distacco tra i sostegni e l’oggetto portato, esaltando l’unità del volume sollevato da terra. Sotto il tetto lo spazio compresso del portico prepara all’entrata nella cappella: voltando le spalle al portale, la linea di gronda, bassa e perfettamente orizzontale, misura la vastità della foresta.

IL SUOLO E IL TETTO
Gunnar Asplund, disegno di progetto in alto. In basso foto del mortuario.
«Il cammino nel bosco conduce direttamente al vestibolo, sostenuto da 12 colonne, dove le persone in lutto si raccolgono e attendono. Le porte saldate in ferro si aprono e, al di là del graticcio in ferro del cancello, si scorge lo spazio luminoso della cappella»[2].
Varcata la soglia verso l’interno, appare sorprendentemente uno spazio chiaro e levigato; all’altezza del colonnato esterno si imposta la cupola a tutto sesto che avvolge l’aula: lo spazio schiacciato del luogo di soglia si inarca a prendere luce dall’alto. Nessuna traccia del tetto a spiovente visto lì fuori: la primitiva capanna nordica nasconde, come in uno scrigno, una cavità dalle forme pure che ricordano quelle di un tempio arcaico. Se il tetto si misura con l’ambiente esterno, l’involucro interno segue sue -autonome- leggi. Al buio del bosco si sostituisce il bianco luminoso dell’intonaco; alla materia rugosa della terra, della corteccia degli alberi, dei trucioli di legno che rivestono il tetto, subentra la superficie liscia e uniforme del luogo di preghiera; la dimensione infinita e disorientante della foresta si annulla nell’assolutezza dello spazio sferico.

IL TETTO E L’INVOLUCRO
Gunnar Asplund, disegno di progetto. In basso foto dell’interno della cappella.
Il concetto di tetto – sembra suggerirci Asplund con la costruzione di questo piccolo edificio – si fonda su una doppia dicotomia: quella che l’elemento costituisce, da un lato con l’internità che racchiude, dall’altro con il suolo che sovrasta.
Non ci sarebbe capanna senza foresta. Appare evidente, anche dalle parole dello stesso Asplund, che la scelta di configurare la cappella sul modello delle capanne primitive nordiche (di cui il tetto rappresenta l’elemento caratterizzante), nasca dal disporre di un ambiente che ha dato origine a quell’archetipo. Il tetto, vale a dire, non è mai atopico, mentre lo spazio interno può esserlo (ancor di più se, come in questo caso, è il luogo destinato al passaggio verso l’ultraterreno). Non è un caso che al carattere quotidiano, vernacolare, quasi fiabesco, dell’esterno dell’edificio, faccia da contraltare un interno dalle forme di un classicismo semplice, poco meno che astratto. Nasce da qui l’esigenza di concepire la copertura come un corpo cavo, un doppio involucro: l’intradosso modellato a definire la spazialità interna e l’estradosso – il tetto – a descrivere un oggetto capace di dialogare con la foresta intorno.
Se la copertura di uno spazio ipogeo si fonde, senza soluzione di continuità, con la linea di terra, un tetto se ne distanzia, creando le condizioni per stare con i piedi radicati sul suolo e il tetto sopra la testa. Ancora una volta, è affidato alla forma il compito di restituire il senso più profondo di questa scissione: il tumulo nasce dalla terra come se una forza premesse dal sottosuolo, producendo ‘naturalmente’ una forma organica; al contrario il tetto, emblema dell’opera umana, è un solido geometricamente perfetto, ancora più leggibile in virtù degli appoggi puntuali che lo sorreggono, liberandone il perimetro e la superficie che ne costituisce la base.
Verrebbe da dire allora, che il tetto è ciò che, affrancandosi dalla terra, si aggrappa all’ambiente e costruisce paesaggio; un oggetto che può essere riconosciuto in virtù di quel che lascia fuori di sé e sotto di sé, che non crea interno, ma suggerisce riparo.
Giulia Cervini | nITro
Note
[1] Le parole di Gunnar Asplund, scritte in occasione dell’apertura della Cappella nel Bosco, sono riportate, in lingua inglese, nel volume a cura di C. Caldenby e O. Hultin, Asplund, Arkitekter Förlag, Laholm 1985, p. 66.
Traduzione italiana a cura dell’autrice
[2] Ibidem