A me l’architettura non interessa. A me piace farla
Fabrizio Carola
Costruire, nei territori africani, è qualcosa di naturale e necessario: è un atto primigenio connaturato all’umanità attraverso il quale l’uomo afferma la sua presenza nel mondo libero da intellettualismi di ogni sorta, che cedono il passo ad un approccio operativo fondato sulle ragioni reali di produzione della forma.
Da sempre, è il lento passo del cammello a scandire il peregrinare delle carovane nei deserti africani; luoghi affascinanti e allo stesso impervi, dove lo sguardo del viaggiatore corre senza sosta alla ricerca di un segno che garantisca la possibilità di orientarsi e di estrarre una minima differenza dalla infinità complessità della realtà. In questa peculiare situazione, l’architettura diventa dispositivo strutturante per la comprensione del mondo circostante e il tetto, quale elemento culminante della dimensione verticale del costruire, diventa un condensatore di significati, in grado di attivare territori e dar vita a opere spontanee, pure e allo stesso tempo funzionalissime.
Lo sa bene l’architetto napoletano Fabrizio Carola, classe 1931, che ha passato la quasi totalità della sua carriera in Africa a confrontarsi con questa idea: architettura non solamente come riparo ma come dispositivo di inclusione e conoscenza, in grado di fornire soluzioni e segni incondizionati per risolvere crisi e necessità reali.
Carola è una personalità affascinante e per capire il suo lavoro è necessario mettere a sistema almeno tre idee che ci consentano di avere una lente critica con cui poter guardare le sue opere: lo strumento come sistema di creazione mentale; il tetto come condensatore di significato e l’architettura come necessità.

Google street view scatta foto in sella ad un cammello
Lo strumento e la possibilità della costruzione
Uno dei fattori che ha maggiormente influenzato l’opera dell’architetto napoletano è sicuramente la sua formazione. Giovane studente, Carola si laurea all’istituto fondato da Henry van De Velde che, forte dell’eredità del Bauhaus, propone un’architettura come atto concreto del costruzione, come azione basata sulle reali possibilità della materia. Nel 1978 gli viene commissionato il Kaedi Regional Hospital ma al suo arrivo in Mauritania, dopo aver lavorato per due anni, cestina il progetto. Qualcosa non lo convince. Le forme precedentemente ideate non riescono a fondersi con quel territorio così differente da come l’aveva immaginato. Capisce che vi è bisogno di una nuova idea di architettura, secondo cui plasmare nuovamente ragioni e modi del suo operare.
Il compasso ligneo diventa la chiave di questo cercare. Di derivazioni nubiana, e già ripreso e reso celebre dall’architetto egiziano Hassan Fathy, è un dispositivo ancorato al centro di una pianta circolare, con un raggio maggiorato di una variabile x e un’origine dello stesso ad un’altezza y, che permette di slanciare e spanciare la struttura stessa, garantendo il totale utilizzo del volume interno ed eliminando la sensazione di oppressione tipica della variante sferica (unica forma sino a quel momento concessa dai precedenti strumenti).

Costruzione del Kaedi regional hospital © Studio 2111 – Fabrizio Carola e Associati
Il compasso consente a Carola di costruire cupole con doppia calotta, completamente autoportanti e senza la necessità di centine lignee e metalliche, ma soprattutto rende l’operazione accessibile anche a manodopera non specializzata, in modo tale da garantire un coinvolgimento attivo della popolazione nella loro realizzazione. Basterebbe questo per spiegare, ad una prima lettura, l’importanza del compasso ligneo ma, per la definizione di strumento che andiamo cercando, dobbiamo spingerci più in là con il pensiero ed indagare veramente il significato del termine. Uno strumento non è un utensile, ma un dispositivo cognitivo. Non è un mezzo per raggiungere un fine (il rapporto tra geometria e pratica costruttiva per fare un esempio), ma dimostra le sue piene potenzialità se inteso come momento di interrogazione profonda, in grado di plasmare una diversa idea del mondo che trova, nell’architettura, la presenza fisica di tali idee. Se guardiamo le opere di Carola attraverso questa lente capiamo immediatamente come il compasso non sia solo l’oggetto tramite il quale realizzare semplici cupole, ma il catalizzatore di un modo nuovo di interrogare la realtà e le sue necessità, che trovano risposta nelle possibilità della costruzione e nello spazio fisico dell’architettura.
“Un utensile, ossia qualcosa che – come aveva scorto bene il pensiero antico – prolunga e rinforza l’azione delle nostre membra, dei nostri organi sensibili[è] qualcosa che appartiene al mondo del senso comune. E che non può mai farcelo superare. Questa è invece la funzione propria dello strumento, il quale non è un prolungamentodei sensi, ma nell’accezione più forte e più letterale del termine,incarnazione dello spirito, materializzazione del pensiero.” [1]
Il tetto come condensatore di significato
Il secondo concetto chiave in questa nostra indagine dell’architettura di Fabrizio Carola è senza dubbio l’idea del tetto come condensatore di significato. Le sue costruzioni riconnettono spazio, funzione, geometria, impianti e costruzione: possono essere pienamente comprese solamente nella totalità delle varie componenti che le compongono e che sono in stretta relazione e interdipendenza l’una con l’altra, come dei sottosistemi indipendenti ma connessi.

Kaedi regional hospital © Studio 2111 – Fabrizio Carola e Associati
La sensazione è quella di trovarsi di fronte ad uno spartito musicale, dove ogni singola pausa, e ogni singola variazione nel ritmo, attiva una magia catalizzante e armonica, in grado di far risuonare lo spazio racchiuso nel quale ci immergiamo. Il tetto, elemento culminante della dimensione verticale dell’architettura, è il segreto di questa “geometria operativa”: il legante che tiene insieme queste singole caratteristiche e le intreccia dotandole di significato. Le coperture di Carola diventano quindi landmark, perché segnano il territorio e consentono una capacità di orientamento nello sconfinato orizzonte desertico; simbolo, perché al di sotto dello spazio che delimitano catalizzano e attivano i desideri di una intera comunità; e infine sono paesaggio, poiché rappresentazione di un insieme di valori, di elementi naturali e antropici che creano immagini e significati nuovi.
Il paesaggio è “la rappresentazione estetica, condivisa
collettivamente e culturalmente,
ma in costante evoluzione, di una parte del mondo” […]
Non si ha concetto di paesaggio se non è condiviso
storicamente e culturalmente.
(Antonino Saggio)
Architettura come necessità (e bellezza)
Eccoci giunti infine all’ultima parola chiave del nostro viaggio: necessità. La architetture migliori, quelle in grado di lasciare tracce indelebili e significanti nel mondo che abitiamo, non sono quelle che esaltano la tecnica come materializzazione “del possibile” in ogni luogo, ma sono caratterizzate da una loro giustificazione interna che fonde assieme bellezza e ragioni sociali, costruzione e forma. Carola questo lo sa, e per tale motivo cestina la prima versione del suo progetto per il Kaedi Hospital, e si avventura verso una nuova idea del costruire. Ricerca un’architettura che non parta da astrazioni precostituite, ma riesca a fondere bisogni, tradizione e aspirazioni della comunità per riuscire a materializzare queste componenti liberamente in forme e gruppi significanti, in grado di occupare il territorio con armonia e rispondere alle logiche abitative del luogo.
Le sue costruzioni, e in particolare le sue coperture, sono struggentemente poetiche e belle. Belle perché materializzano la capacità dell’architetto di operare una lettura critica della realtà senza rifugiarsi in rigidi concettualismi astratti ed autoreferenziali; belle perché nascono da un’immagine interiore che si compone e poi diventa forma e contenuto e riesce a farsi portavoce dei desideri di una comunità; belle perchè “polisemiche”, cariche di una dimensione metanarrativa che ne innalza il potenziale oltre il carattere formale come pura fisicità.

Kaedi regional hospital – Corridoio per la circolazione delle famiglie dei pazienti con sistemi di ventilazione naturale © Studio 2111 – Fabrizio Carola e Associati
Valerio Perna | nITro
Note
[1] Alexande Koyré, Dal mondo del pressapoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino 1967 (prefazione e cura di Paola Zambelli con un saggio di Pierre-Maxime Schuhl p.101)
Bibliografia
Luigi Alini, Fabrizio Carola, opere e progetti 1957-2015, Feltrinelli, Milano 2016
Antonino Saggio, DATEMI UNA CORDA E COSTRUIRÒ. Costruzione, Etica, Geometria e Information Technology, Lulu.com, Raleigh (USA) 2009
Antonino Saggio, Paesaggi culturali, in M. Baldissara, M. Montori e T.M.M. Piccinno (a cura di) Roma, cosmo materia cultura. Proiezioni trasversali per il progetto della città, Quaderni del Dottorato di Ricerca in Architettura – Teorie e Progetto, Lulu.com, Raleigh (USA) 2016