
Panoramic view of Tokyo from Tokyo Skytree. Fonte: https://en.wikipedia.org/wiki/Tokyo
Nell’ultimo decennio la questione delle metropoli giganti, ormai conosciute come megacities, ha riguardato soprattutto la velocità e la sostenibilità della loro crescita, in alcuni casi rapidissima. Il caso di Lagos in Nigeria è esemplare: si tratta di una metropoli che ha superato i 21 milioni di abitanti e che nel 2050 vedrà la sua popolazione essere poco meno del doppio dell’attuale, ponendo nuove sfide alla programmazione della spazio costruito, alla creazione di nuove infrastrutture e all’ideazione di nuove tipologie abitative.
Il fenomeno della globalizzazione e dell’internazionalizzazione dei mercati, su cui tanto si è discusso negli ultimi decenni, è senza dubbio alla base dell’accellerazione nella crescita delle metropoli giganti. Non è un caso che questa crescita, conseguenza delle fuga in massa dalle campagne in cerca di migliori occasioni, riguardi sostanzialmente paesi in rapida ascesa economica che della globalizzazione hanno beneficiato in termini di prodotto interno lordo.
Una delle maggiori singolarità in questa situazione riguarda l’area metropolitana di Tokyo[1], ad oggi la più grande metropoli del pianeta in termini demografici con i suoi 38 milioni di abitanti.[2] Tokyo aveva già mostrato tendenze ad accelerare la sua crescita dopo la seconda guerra mondiale a seguito di una vertiginosa crescita economica, interrotta nel 1989 dallo scoppio della bolla speculativa. Dagli anni 90 in poi il Giappone è rimasto sostanzialmente in uno stato stato permanente di crisi economica, aumentando vertiginosamente il proprio debito pubblico per mantenere inalterato il livello della costosa, ma almeno efficiente, macchina pubblica. La continua erosione delle grandi risorse finanziarie accumulate dal paese nel periodo della guerra fredda ha però raggiunto una situazione critica, una stato di deflazione economica difficile da invertire e che lentamente sta portando il paese in un rallentamento cronico dei consumi. La nascita di lavoro e salario precari per le giovani generazioni ha attivato quindi spirali di incertezze e pessimismo, che per motivi sociali e storici viene raramente esplicitato quanto piuttosto vissuto dal singolo individuo come un fallimento personale. La conseguente crisi demografica, non solo ha comportato un rallentamento delle nascite dagli anni ’90, ma anche una drammatica e rapida diminuzione della popolazione del Giappone che a differenza dei paesi europei, ha scelto una chiusura netta delle sue frontiere all’immigrazione dai paesi limitrofi.[3]
In questa situazione Tokyo ha continuato a crescere demograficamente negli ultimi decenni. Allo stato attuale l’area metropolitana di Tokyo ospita stabilmente più di un terzo della popolazione dell’intero Giappone continuando a crescere grazie alle giovani generazioni che abbandonano una provincia sempre più impoverita e desertificata, per la vita nella metropoli. Ma anche Tokyo sta per raggiungere il punto di non ritorno: avendo ormai scarnificato il grande serbatoio demografico della provincia giapponese la metropoli si prepara ad una contrazione demografica che vedrà nei prossimi anni l’abbandono forzato di parti di città, non più sostenibili dal punto di vista infrastrutturale.
Il fenomeno delle case abbandonate è conosciuto ormai da molti anni in Giappone. All’inizio del XXI secolo l’abbandono di interi villaggi o aree insidiative di minore importanza strategica, era percepito sostanzialmente con una certa vena naive, o al massimo come un fenomeno la cui pericolosità stava nella perdita di conoscienze specifiche nella cultura e nelle tradizioni dei luoghi abbandonati, ma in ogni caso come conseguenza dell’inevitabile progresso e infinita crscita economica. In quest’ottica si collocano interventi di recupero di grande pregio come quello che vede la musealizzazione delle tre isole Naoshima, Teshima e Inujima, ormai quasi disabitate, riconvertite in sistema museale diffuso anche con l’apporto di grandi firme dell’architettura come Tadao Ando, Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa.[4]
Solo con l’arrivo del fenomeno di abbandono nei grandi centri abitati i media giapponesi ma soprattutto il mondo politico hanno rilevato l’emergenza che si nasconde in un fenomeno che rapprensenterà la maggiore sfida che il Giappone dovrà affrontare nel futuro. Infatti se ancora nel 2014 il governo giapponese proponeva una forte riduzione delle tasse per il recupero degli immobili abbandonati a disposizione[5], a metà del 2015 ci si arrende di fronte all’evidenza della mancanza in termini numerici di popolazione utile ad operare un progetto nazionale di recupero e si prepara una legge specifica che obblighi alla demolizione.[6]
E in questa situazione di grande abbandono di case e immobili già all’interno dell’area metropolitana, Tokyo sarà la più grande metropoli del pianeta a prepararsi ad una massiccia contrazione demografica e all’abbandono di intere porzioni di città. Alla fine degli anni ’90 questo fenomeno di contrazione fu rilevato in tutta la sua emergenza dal Professor Hidetoshi Ohno dell’Università di Tokyo, dedicando gran parte del lavoro del sua laboratorio di ricerca, all’ideazione e progettazione di una soluzione all’emergenza abbandono per Tokyo da completarsi nel 2050. Il risultato delle sue ricerche dal titolo “Tokyo Fibercity 2050”[7] è anticipatore delle grandi questioni che hanno interessato successivamente città come Detroit, uno dei casi quest’ultimo tra i più significativi di contrazione demografica e abbandono di porzioni di città. Infatti nell’ipotesi molto probabile che in seguito all’abbandono rimane un tessuto edilizio di densità troppo bassa con presenza di abitazioni necessariamente casuale, come nel caso di Detroit, la conseguenza sarà l’impossibilità economica a sostenere un sistema infrastrutturale e di servizi diffuso. L’unica possibilità sta nella demolizione di abitazioni e nell’accorpamento della popolazione rimasta lungo direttrici infrastrutturali. Nel caso di Tokyo la migliore scelta è, per il Professor Ohno, l’accorpamento di abitazioni lungo le linee ferroviare. Questa soluzione porterebbe Tokyo ad essere non più un grande agglomerato ad alta densità, ma una città costituita da “filamenti” infrastrutturali e abitativi, altamentente gerarchizzati, con conseguente riconversione delle zone disabitate in verde diffuso di qualità.
In questo quadro di permanente crisi economica compensata da un forte indebitamento pubblico e inarrestabile contrazione demografica, Tokyo si prepara ad ospitare i Giochi Olimpici del 2020. La candidatura è stata fortemente voluta dal Primo Ministro Shinzo Abe, fautore della cosidetta Abenomics, una serie di iniziative macro-economiche volte a invertire la decennale depressione economica giapponese, che dal 2013 hanno portato qualche indiscutibile beneficio economico dovuto anche al sostanziale aumento della spesa pubblica, ma che nel periodo medio-lungo potrebbero ulteriormente aggravare la non facile situazione economica.
I notevoli investimenti per i giochi olimpici di Tokyo in campo edilizio hanno interessato non solo le aree scelte per ospitare gli impianti sportivi, ma anche aree strategiche per lo sviluppo turistico, economico e la crescita di poli multifunzionali come ad esempio Shibuya, Shinagawa, Roppingi e Toranomon. I grandi progetti e le conseguenti demolizioni non hanno però interessato le aree più depresse, ma solo aree di notevole pregio, trasformando l’intera operazione delle olimpiadi più in un grande progetto speculativo piuttosto che in un’occasione di recupero. In particolare va ricordato che la demolozione di aree molto frequentate e di grande vivacità culturale, come l’area antistante la stazione di Shinagawa[8], ha generato un profondo malcontento nella popolazione arrivando anche a forme di protesta che sono molto rare nel panorama culturale giapponese.
Attualmente Abenomics e le Olimpiadi sono percepite in Giappone come un ultimo tentativo di arginare una crisi strutturale e cronica che ha profondamente cambiato la società giapponese, ma che si fatica ancora ad accettare. Il paese è quindi pervaso da un senso di precarietà e inevitabile destino e cominciano ad essere percepiti in tutta la loro drammaticità anche dai media stranieri[9], generalmente più interessati al fattore strettamente economico o alle bizzarre diversità che caratterizzano il Giappone.
Visioni lungimiranti per la programmazione del futuro prossimo, come la già citata Tokyo Fiber City 2050, rimangono relegate al mondo accademico e dai tempi del Metabolismo non entrano più nei piani del Governo, più interessato quest’ultimo a realizzare leggi di incentivo e eventi in grado di sbloccare ulteriori risorse economiche. Il Giappone e la dedizione dei giapponesi hanno dimostrato però nel tempo una capacità di ripresa eccezionale, come negli anni 50 nel caso della ricostruzione di una paese devastato dai bombardamenti, o nel caso di eccezionali calamità naturali come il recente terremoto e successivo tsunami del 2011.
La chiave del futuro successo del Giappone starà nella scelta alle elezioni di governanti più coraggiosi e dalla maggiore lungimiranza in grado di sbloccare non tanto nuovi fondi, quanto la fierezza e la coesione sociale di un popolazione che ad oggi sembrerebbe sopita.
Note
[1] In molti articoli e pubblicazioni occidentali viene indicata con la dicitura Tokyo-Yokohama a ricordare le due piu’ grandi entita’ amministrative che la compongono, oppure Greater Tokyo Area
[2] http://www.geohive.com/cities/agg2014_2030.aspx
[3] http://www.economist.com/blogs/banyan/2014/03/japans-demography
[4] http://benesse-artsite.jp/en/
[5] http://www.japantimes.co.jp/news/2014/08/02/national/japan-to-reduce-unsafe-abandoned-houses-by-cutting-tax-breaks/
[6] http://www.japantimes.co.jp/news/2015/05/26/national/law-forced-demolition-derelict-houses-takes-effect/
[7] http://www.fibercity2050.net/eng/fibercityENG.html
[8] http://www.japantimes.co.jp/life/2015/11/07/lifestyle/heart-darkness-nostalgic-tokyo-disappearing-amid-construction-boom/
[9] http://www.seattletimes.com/business/2020-olympics-seen-as-last-hurrah-for-shrinking-tokyo/
Co-writer | Cristiano Lippa
Cristiano Lippa è un’architetto co-fondatore di Near Architecture, uno studio di progettazione e ricerca con sedi a Roma e Atene. Consegue i suoi studi universitari tra Italia e Giappone dove nel 2012 presso l’Università di Tokyo comincia la sua attività di ricerca per il Kengo Kuma Laboratory. Il suo principale campo di ricerca riguarda la percezione dello spazio pubblico nei paesi europei e dell’Asia Pacifica.