High-tech design e low-tech construction. Conversazione con Paolo Cascone

cascone digital on off magazine

Conversiamo con Paolo Cascone, architetto nomade, vissuto tra Italia, Francia, Africa e West Indies, che da anni conduce ricerche applicate e progetti sul rapporto tra progettazione parametrica, fabbricazione digitale e auto-costruzione. Formatosi all’Architectural Association di Londra, ha insegnato all’Ecole Speciale d’Architecture di Parigi, dove fonda nel 2007 il COdesignLab. Nel 2013 torna temporaneamente nella sua città natale, Napoli, per fondare l’Urban FabLab, un laboratorio di ecologia urbana e fabbricazione digitale che attraverso iniziative interdisciplinari e bottom-up intende promuovere una nuova coscienza progettuale.

paolo cascone

Portrait Paolo Cascone

E.S. Hai vissuto in diversi paesi. Quali sono le tracce che queste esperienze hanno lasciato nel tuo modo di insegnare e progettare?

P.C. Durante la mia infanzia ed adolescenza ho avuto la fortuna di trascorrere lunghi periodi in Africa. Questo ha sicuramente condizionato il mio modo di vedere alcune cose: il rapporto tra uomo e natura, l’uso consapevole della tecnologia, l’idea di collettività, etc. Forse sono queste esperienze che mi hanno spinto, prima di decidere che avrei voluto essere un architetto, a seguire dei corsi di architettura vernacolare alla University of West Indies di Kingston in Jamaica dove mi trovavo sempre per motivi familiari. Degli studi presso la facoltà di Napoli ricordo le belle lezioni di Cesare De Seta e Alberto Ferlenga che mi hanno aiutato sul piano culturale ad avere una visione ampia e diacronica della storia e dell’evoluzione dell’architettura. Dal punto di vista metodologico devo molto all’ esperienza post-laurea fatta all’Architectural Association di Londra. Era un momento speciale in cui nella scuola emergevano nuovi processi progettuali e si sperimentavano nuovi strumenti che esploravano il rapporto tra computational design e prototipazione fisica. Solo grazie a quell’intenso periodo di formazione alla AA mi sono reso conto dell’importanza di sviluppare teoria attraverso la pratica. Questo per dire che è probabilmente l’insieme di tali esperienze che ha informato la mia agenda di ricerca sia nell’insegnamento che nella progettazione.

Ho cominciato ad insegnare a Parigi molto presto ed è forse per questo che ho cercato di guadagnare la fiducia e l’interesse dei miei studenti strutturando sin dal principio il mio design studio con grande rigore metodologico , trasformandolo, in un laboratorio di ricerca applicata. Questo modo di collegare ricerca e insegnamento ha condizionato il mio modo di approcciare la professione. Se all’inizio ho cominciato a lavorare in studi affermati su grandi progetti ho presto scoperto l’esigenza di confrontarmi con “piccoli” progetti sperimentali che mi permettessero di testare i processi di progettazione avanzata attraverso la realizzazione fisica di strutture e involucri architettonici performativi. Per sviluppare questa strategia ho fondato COdesignLab a Parigi nel 2007 coinvolgendo nel tempo i miei ex-studenti. Su questa base nasce anche l’iniziativa recente di Urban FabLab.

1.Work in progress - Sourgoubila project (Burkina Faso) realizzato con gli studenti AtelierPaoloCascone-Esa e con la comunità locale

1. Work in progress – Sourgoubila project (Burkina Faso) realizzato con gli studenti AtelierPaoloCascone-Esa e con la comunità locale

E.S. Dialogo tra culture diverse e viaggio sono due elementi chiave che ritornano nelle tue esperienze. Tra queste una tra le più importanti probabilmente la collaborazione con Fabrizio Carola, che vi ha visto impegnati su vari fronti. Puoi raccontarci come nasce la vostra collaborazione, quali sono le attività sviluppate e cosa attualmente in progress?

P.C. Un giorno, quando insegnavo all’ESA di Parigi, in una pausa pranzo discutevo con Peter Cook sulle differenze tra la condizione di studente a Parigi e a Londra. Lui si lamentava dell’atteggiamento dei suoi studenti francesi e mi disse una cosa che mi ha fatto riflettere per anni. Sosteneva che Parigi fosse una città fin troppo “comoda” e non avesse nulla a che fare con la “durezza” di Londra che costringeva tutti in una condizione di “foreigner” (straniero). Questa condizione “scomoda” di straniero, di non sentirsi a casa, secondo lui permetteva di superare i propri limiti e di approcciare le cose con l’apertura mentale e una determinazione necessaria.

Credo sia questo il motivo per cui anche io ho sempre preferito la condizione dell’essere “straniero” che è quella che ti permette ogni giorno di scoprire cose nuove. Fabrizo Carola, per storia personale e professionale, in questo è stato un maestro. Avevo sentito parlare della sua storia ma solo per caso, sfogliando alcuni libri nella biblioteca della AA, ho conosciuto il suo lavoro Per anni ho cercato di contattarlo, poi un giorno rispondendomi ad una vecchia mail, mi ha proposto di raggiungerlo a Bruxelles dove parlammo e disegnammo per ore in un ristorante giapponese. Venivamo da due mondi apparentemente opposti ma in realtà erano molte le questioni che ci accomunavano.

Di qui li l’idea di sperimentare una collaborazione che sviluppasse in modo evolutivo le sue strutture a cupola variando parametricamente le forme in funzione delle performance ambientali, il controllo della luce naturale, la ventilazione passiva, la raccolta delle acque piovane, etc. immaginammo di trasformare il suo compasso in una specie di braccio a controllo numerico. Dopo aver trascorso un po’ di tempo in Mali a ragionare con Fabrizio, toccando con mano la sua architettura e quella dei paesi Dogon, progettammo una serie di ipotesi ma per vari motivi purtroppo non riuscimmo ad andare oltre lo sviluppo di alcuni prototipi. Spero sempre di poter riprendere quel progetto un giorno.

Prototipo del Sevarè project (Mali) – COdesignLab

Prototipo del Sevarè project (Mali) – COdesignLab

2.Portrait Fabrizio Carola e Paolo Cascone Sevarè project (Mali)

Portrait Fabrizio Carola e Paolo Cascone Sevarè project (Mali)

E.S. Da queste esperienze emerge la ricerca per ciò che definisci “high-tech design” e “low-tech construction”. Puoi raccontarcene il significato, insieme a degli esempi?

P.C. Si tratta di utilizzare le tecnologie avanzate in modo creativo con l’obbiettivo di fornire soluzioni site-specific ottimizzando risorse. In tal senso l’agenda di ricerca considera come elemento generativo del progetto il rapporto con i sistemi costruttivi ed i materiali locali. Da un punto di vista del processo progettuale ciò implica lavorare con un approccio information based in grado di definire un sistema di relazioni che regola il rapporto tra forma e performance di un manufatto. Per quanto riguarda gli aspetti della costruzione si esplora la possibilità di auto-produrre componenti strutturali low-cost, utilizzando il più possibile le risorse reperibili in situ. Questi, che possono sembrare i vincoli del progetto, diventano i driver creativi dello stesso se integrati sin dal principio nel processo di form finding digitale.

Sono davvero pochi gli esempi di progetti che integrano tutti questi aspetti insieme al coinvolgimento delle comunità locali nella fase progettuale e realizzativa, come avviene nei casi dei lavori realizzati in Burkina Faso e in Senegal. Per questo motivo piuttosto che citare esempi specifici  posso affermare che questa interazione tra high-tech design and low-tech construction si ispira tra gli altri al lavoro di Hassan Fathy e Fabrizio Carola, in particolare per le opere in terra cotta e terra cruda. Ammiro i progetti di Eladio Dieste e Frei Otto per la capacità di sperimentare sistemi strutturali performativi a basso costo. Più di recente, credo che Shigeru Ban e Kengo Kuma abbiano realizzato strutture in legno molto interessanti . Per ciò che riguarda lo sviluppo di un processo progettuale diagrammatico, che tiene insieme questioni digitali e tettoniche, considero anticipatori i primi lavori di Jesse Reiser e di Foreign Office. Per quanto riguarda la scena italiana mi vengono in mente gli artisti cinetici degli anni ’70 oltre che due figure, piuttosto legate al mondo del design e dell’avanguardia, ma molto diverse tra loro, Bruno Munari e Ugo La Pietra.

Studio parametrico dell’involucro del Sevarè project (Mali) – COdesignLab

Studio parametrico dell’involucro del Sevarè project (Mali) – COdesignLab

Dettagli costruttivi dello Smart pavillion for the World Urban Forum / UN Habitat – COdesignLab

Dettagli costruttivi dello Smart pavillion for the World Urban Forum / UN Habitat – COdesignLab

Work in progress dello Smart pavillion for the World Urban Forum / UN Habitat – COdesignLab

Work in progress dello Smart pavillion for the World Urban Forum / UN Habitat – COdesignLab

E.S. Sempre più ci troviamo di fronte a progetti il cui formalismo dominante deriva da un approccio discutibile al computational design. In che modo pensi che esso possa essere invece uno strumento utile per garantire la sostenibilità di un progetto?

P.C. In effetti sembra proprio che il cosiddetto computational design malgrado le premesse stia uniformando in modo formalistico i progetti piuttosto che aprire alla diversificazione. In realtà quello che trovo interessante in questo approccio è la possibilità di poter sviluppare un processo progettuale evolutivo, generare famiglie di soluzioni possibili a partire da un prototipo iniziale. In tal caso lo sviluppo parametrico del progetto consente di comparare più soluzioni per decidere quale portare avanti. Gli strumenti digitali quindi facilitano la capacità di simulare le performance permettendo di anticipare possibili scenari adattando di conseguenza il progetto. Il problema del formalismo nasce quando le premesse progettuali non hanno nessun nesso con un contesto o con un sistema costruttivo specifico; quando lo strumento prende il sopravvento sul progetto. Per questo motivo, nella mia agenda di ricerca è molto spesso il sistema materiale (fortemente legato al contesto) che informa il rapporto tra geometria, forma e struttura. Questo significa bypassare la nozione di architettura digitale e ragionare il più possibile in continuità con i saperi e le tecnologie tradizionali ed i materiali locali. Qualcuno in passato ha definito questo approccio post-vernacolare, probabilmente si tratta semplicemente della possibilità di sviluppare una visione olistica del fare architettura.

Work in progress- Sourgoubila project (Burkina Faso) realizzato con gli studenti dell’AtelierPaoloCascone-Esa e con la comunità locale

Work in progress- Sourgoubila project (Burkina Faso) realizzato con gli studenti dell’AtelierPaoloCascone-Esa e con la comunità locale

Advanced Ceramics / Materia Programmata – progetto realizzato con gli studenti l’Accademia di belle Arti di Urbino – COdesignLab

Advanced Ceramics / Materia Programmata – progetto realizzato con gli studenti l’Accademia di belle Arti di Urbino – COdesignLab

Preferisco pensare ad un processo progettuale ecologico piuttosto che ad un architettura sostenibile.

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E.S. A Parigi hai istituito il COdesignLab e a Napoli (tua città natale) l’Urban FabLab. Come nascono? Cosa li accomuna e in che cosa differiscono? Quale rete di partner e collaboratori si è costituita?

P.C. Entrambe le iniziative nascono dall’esigenza di sperimentare attraverso la pratica costruttiva oltre che dalla necessità di mettere in condivisione conoscenze ed esperienze in un’ottica collaborativa. Nello specifico COdesignLab ha un taglio più legato alla “professione” e sviluppa progetti di ricerca applicata per un’architettura performativa. Dall’esperienza di COdesignLab è nata l’idea di sviluppare un progetto di innovazione sociale a scopo divulgativo, Urban FabLab, che è un associazione fondata con un gruppo di studenti di Napoli. Il progetto prevede workshop e iniziative di hacking dello spazio fisico urbano attraverso processi di digital manufacturing e auto-costruzione, come nel caso dell’iniziativa African Fabbers. COdesignLab e Urban FabLab condividono una rete di partner che vanno in direzioni diverse, dal mondo dell’impresa alle istituzioni culturali ed accademiche ma soprattutto una rete di comunità locali e semplici cittadini che collaborano ai progetti di ecologia urbana che proponiamo in giro per il mondo.

Presentazione dello Smart pavillion for the World Urban Forum / UN Habitat – COdesignLab

Presentazione dello Smart pavillion for the World Urban Forum / UN Habitat – COdesignLab

Folding Foyer – progetto realizzato con gli studenti dell’Università Federico II di Napoli e con Urban FabLab

Folding Foyer – progetto realizzato con gli studenti dell’Università Federico II di Napoli e con Urban FabLab

E.S. Con l’Urban FabLab avete promosso il progetto African Fabbers per la Biennale di Dakar. Puoi spiegarci in cosa consiste?

P.C. African Fabbers è un laboratorio itinerante che mette in contatto designer, maker e creativi africani ed europei. E‘ un iniziativa che parte dal presupposto che c è molto da imparare dalla capacità di auto-organizzarsi e auto-prodursi manufatti in Africa. In tal senso qualsiasi “rivoluzione industriale” ai nostri giorni per essere considerata tale deve essere accessibile a tutti ponendosi il problema di migliorare le condizioni di vita delle persone nei contesti più svantaggiati. Seguendo questa logica African Fabbers ha trasformato spazi urbani residuali in luoghi di relazione e di co-produzione attraverso un approccio partecipativo. Se a Marrakech ci siamo cimentati nell’allestimento del laboratorio partendo dall’autocostruzione di una stampante 3d con materiali locali e l’uso di terra km0 per il digital fabrication, a Dakar abbiamo progettato e realizzato con la comunità locale l’estensione di un piccolo fablab di quartiere. Oggi stiamo lavorando al progetto African Fabbers Academy. Un progetto ambizioso per lo sviluppo di una scuola di auto-costruzione e fabbricazione digitale che possa mettere a sistema queste esperienze in modo sistematico integrando temi importanti come l’auto-sufficienza energetica, l’agricoltura urbana, etc.

Stampa 3d African Fabbers Marrakech Biennale Urban FabLab

Stampa 3d con materiali naturali locali – African Fabbers-Marrakech Biennale (Marocco) – Urban FabLab

Work in progress dell’ Open air lab - African Fabbers-Dakar Biennale (Senegal) realizzato con gli studenti del workshop, la comunità locale e Urban FabLab

Work in progress dell’ Open air lab – African Fabbers-Dakar Biennale (Senegal) realizzato con gli studenti del workshop, la comunità locale e Urban FabLab

E.S. Il movimento dei makers e la diffusione dei FabLab su scala globale sono ormai dei dati di fatto con numeri in crescita esponenziale. Siamo davvero di fronte all’avvento della Terza Rivoluzione Industriale che promette di farci superare questa fase di crisi? Quali insidie vi sono secondo te?

P.C. Leggo con entusiasmo che aumenta in giro per il mondo il numero di fablab. Credo che possano rappresentare degli ottimi presidi di ecologia urbana e mi auguro che sempre di più questi laboratori sappiano sviluppare un’identità precisa rispetto al contesto in cui agiscono. L’idea che siano tutte mini-succursali del primo fablab del MIT mi sembra, però, fallimentare. Allo stesso tempo mi lascia perplesso la bolla mediatica che si sta costruendo (anche in Italia) attorno al fenomeno che lascia presagire grosse speculazioni economiche, alimentando la società dei consumi piuttosto che quella della conoscenza e della condivisione. Non è un caso che, per ora, solo pochissimi hanno guadagnato grazie a questa novità. In tal senso si fa sempre più necessaria una riflessione seria sull’impatto delle macchine a controllo numerico nel mondo del lavoro, soprattutto in determinati contesti.

In ogni caso, chi come me pensa che la crisi di cui parliamo sia etica e culturale, ancora prima che economica, riconosce che questo processo speculativo fosse prevedibile. Questo non impedisce, almeno spero, di poter sviluppare piccole iniziative di eccellenza che riportino al centro la cultura del progetto.

Diagramma del progetto African Fabbers realizzato con i partner locali e con Urban FabLab

Diagramma del progetto African Fabbers realizzato con i partner locali e con Urban FabLab

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E.S. In chiusura ti proponiamo di esprimere con un tweet in 140 caratteri il tuo concetto della tanto abusata parola “sostenibilità”

P.C.  Il titolo di un libro di Munari: #dacosanascecosa

Copertina del libro di Bruno Munari “da cosa nasce cosa”

Copertina del libro di Bruno Munari “da cosa nasce cosa”

Editorial Staff | On/Off Magazine

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