Designing through bacteria

Sono numerosi gli studi che affermano come le popolazioni non crescano in modo lineare. Le proiezioni più aggiornate prevedono un aumento della popolazione del 20% nel prossimo ventennio, per un totale di quasi otto miliardi e mezzo di individui entro gli anni ‘30 – i paesi in via di sviluppo e del terzo mondo a trainare il treno della sovrappopolazione. Nonostante le teorie più ottimistiche prevedano un declino del tasso di crescita in funzione dell’uscita di queste regioni dal “sud del mondo” (dopo il 2050), non sarà possibile ignorare la problematica sostenibilità di un simile sviluppo. Già ora non lo possiamo fare. Mancare di lungimiranza in questo senso può solo portare ad una situazione in cui la catastrofe non sarà più evitabile, ma solo posticipabile di un paio di generazioni.
Due sono i fattori limitanti in questo contesto: la disponibilità di risorse e l’urbanizzazione (ovvero, la quantità di brodo ed il numero di bottiglie). Sempre stando alle proiezioni, entro due decenni l’80% della popolazione terrestre abiterà in megalopoli, con le sintomatiche difficoltà legate alla gestione di grosse aree urbane densamente popolate: tutela delle condizioni igienico-sanitarie, (micro)criminalità, inquinamento, dispendio energetico, gestione dei rifiuti.
Un approccio architettonico a questi due nuclei problematici può essere, se non la soluzione, quantomeno condizione minima e necessaria per essa. Non a caso, l’architettura è stata anzi la prima disciplina a mobilitarsi verso un’integrazione uomo-ambiente mirata ad attutire l’impatto del primo sul secondo e, di conseguenza, migliorando la vivibilità dell’ambiente e la qualità della vita dell’uomo. E tuttavia, il trend che si osserva non è dei più promettenti: nonostante un’enfasi sempre più grande sia data all’ecosostenibilità dell’edilizia, le città continuano ad accrescersi perifericamente, e solo di rado la decentralizzazione attutisce l’impatto di questo fenomeno.

A sostegno di queste riflessioni, vi è un esperimento mentale che risulta utile fare. Quest’esempio è disponibile in varie forme in rete, e viene usato come allegoria della dinamica di popolazione umana nel XXI secolo. Prima di raccontarlo, è utile spiegare cosa sia l’Escherichia coli: si tratta di un batterio molto comune nei laboratori di microbiologia. Lo si usa per via della sua facile reperibilità, della vasta conoscenza che si possiede a suo riguardo, della facilità con cui lo si riesce a manipolare e della velocità con cui si riproduce: ogni cellula batterica si divide, generando due copie identiche, ogni venti-trenta minuti.

Ora, immaginiamo di partire con una bottiglia da un litro di “brodo nutritivo” per E.coli, e di disperdervi un millilitro di batteri. Se le condizioni di crescita sono ottimali, dopo venti minuti i batteri avranno consumato un po’ di “brodo”, saranno aumentati di dimensione e si saranno duplicati, occupando due millilitri. Otto in capo ad un’ora. Mezzo litro a tre ore. L’intera bottiglia entro tre ore e mezza. Dopodiché, non disporranno più di nutrienti con cui sostentarsi, alcuni moriranno di fame ed altri per le tossine rilasciate dai “cadaveri” dei primi.
Ora, poniamo che il ricercatore a tre ore si accorga delle condizioni critiche verso cui la sua coltura batterica verte. Mettiamo che abbia la fortuna di avere, messa da parte, una seconda bottiglia di brodo. Ridistribuisce il contenuto delle due bottiglie – ciascuna conterrà dunque un quarto di litro di batteri, e tre quarti di liquido nutritivo. Di quanto ha posticipato la morte della sua popolazione di E.coli?
Solo venti minuti.

Bacillus subtilis. Courtesy Forensics Lab Supply

Bacillus subtilis. Courtesy: Forensics Lab Supply

Secondo alcuni architetti come Rachel Armstrong, Mitchell Joachim e David Benjamin per citarne alcuni, l’unica soluzione è un cambiamento nel paradigma dell’architettura, in un approccio olistico che forte del contributo di altre aree disciplinari come la chimica e la biologia sintetica, porti ad un diverso modo di concepire l’edificio.
La tesi portante di questa frangia dell’avanguardia è che un’architettura in cui gli edifici non siano altro che entità progettate per rispondere in maniera standard alle condizioni ambientali, in modo meccanistico, non possano risolvere (almeno, non in maniera definitiva) i problemi legati alla gestione degli spazi cittadini, all’impatto ambientale dell’urbanizzazione ed al fronteggiamento di catastrofi atipiche.

Una potenziale soluzione sarebbe quella di fornire alle abitazioni la capacità di interagire con l’ambiente circostante. In un’ipotetica megalopoli della seconda metà del XXI secolo, gli edifici potrebbero essere entità biologiche in grado di crescere, ripararsi autonomamente, riutilizzare in modo ottimale i propri prodotti di scarto e reagire in maniera circostanziale al cambiamento dei fattori ambientali ai quali è sottoposta, come intensità di illuminazione, forza del vento, temperatura, umidità, e via discorrendo.

Da entità meccaniche ad organismi viventi, o simil-viventi, questo è il paradigm shift verso il quale alcuni studi si stanno avventurando, un passo alla volta. In questo contesto una delle forze portanti, assieme alle scienze di design ed alla chimica dei materiali, sarebbe la biologia sintetica. Questa disciplina è nata nell’ultimo decennio come reciproca contaminazione di biotecnologie ed ingegneria, in cui organismi presenti in natura vengono manipolati per conferire loro nuove proprietà (solitamente, pensando all’uomo come beneficiario), od in cui entità simil-viventi, definite protocellule, vengono costruite ad hoc per funzionare come nanomacchine dotate di un grado variabile di autonomia.

Le capacità acquisite da questi sitemi possono andare dal moto guidato da segnali chimici o luminosi, alla biosintesi di materiali, all’eliminazione di inquinanti ambientali. Questo contributo delle scienze biologiche all’architettura può avvenire con uno spettro di entità ed estensioni molto vasto: dal semplice fornire “strumenti” per ridurre l’impatto ambientale delle attività abitative o di produzione umane, alla realizzazione degli edifici viventi di cui sopra, passando per il fungere da interfaccia ambiente-edificio in cui biologia, cibernetica ed edilizia formano un consorzio finalizzato alla soddisfazione di tutti i bisogni di cui sopra.

Ad oggi, le prime fasi di questo nuovo paradigma, ancora allo stadio embrionale, sono già state messe in atto. È il caso di iGEM – international Genetically Engineered Machine, un concorso internazionale di biologia sintetica rivolto a studenti universitari e promosso dal MIT di Boston, in cui i partecipanti vengono invitati a sviluppare soluzioni biologiche a problemi attuali, con un occhio di riguardo alla multidisciplinarietà ed all’ingerenza di altre forme del sapere. Una vera e propria fucina per la realizzazione di tecnologie innovative e che trovano applicazioni in qualsiasi contesto – non da ultime, l’architettura della città e del paesaggio. Da iGEM sono nati Bacillafilla, cellule del batterio Bacillus subtilis in grado di riparare le soluzioni di continuità nel cemento, fissando l’anidride carbonica dell’atmosfera in una matrice di carbonato di calcio, collante batterico e cellule , riparando la frattura; e Crust away, in cui E.coli è stato riprogrammato per ripulire le superfici in marmo sulle quali si forma una patina nerastra a causa dell’accoppiamento di piogge acide ed inquinamento da polveri sottili, in un modo controllabile e totalmente inoffensivo per il marmo (al contrario delle tecniche fisiche e chimiche attualmente disponibili).

Altri progetti consistono di modi alternativi di produrre energia e luce, riciclare materiali di scarto, monitorare parametri ambientali, tutte implementabili in una fase primordiale di edificio che, seppur ancora un’entita meccanisica, inizi ad “evolvere” verso la vita.
Un passo oltre la natura quasi-amatoriale di iGEM è stato mosso da alcuni team e studi, soprattutto oltreocenao. È il caso di Hylozoic Ground, esposizione al padiglione canadese per la Biennale del 2010 e messo a punto dal team dell’architetto e scultore Philip Beesley.

Hylozoic Ground Venice Biennale Beesleey

Hylozoic Ground, Installazione alla Biennale di Architettura di Venezia 2010 – Padiglione del Canada, Philip Beesleey, fonte: http://www.hylozoicground.com/venice/gallery/index.html

Hylozoic Ground, Installazione alla Biennale di Architettura di Venezia 2010 - Padiglione del Canada, Philip Beesleey, Vista interna

Vista interna, Hylozoic Ground, Installazione alla Biennale di Architettura di Venezia 2010 – Padiglione del Canada, Philip Beesleey, fonte: http://www.hylozoicground.com/venice/gallery/index.html

L’installazione consisteva in un sistema di attuatori robotici che, controllati da una rete neurale e da un sistema di sensori (biologici e non) per il tocco ed altri parametri, era in grado di muovere protesi in acrilico e dare alla struttura l’aspetto di una foresa di vetro che respirava e reagiva alla presenza di chi vi passava attraverso. Più vicino all’arte visiva (e, per certi versi, concettuale) che all’architettura, il progetto comunque offre una panoramica di come sistemi biologici e meccanici possano essere impiegati per fornire responsività a del materiale inerte.

È facile immaginare un futuro in cui un sistema di organismi ingegnerizzati o protocellule agisca sinergisticamente con altre piattaforme per creare soluzioni pratiche, versatili e contestuali a problemi inerenti l’abitabilità e l’impatto ambientale delle città.
Più vicini alle esigenze abitative della popolazione sono invece i progetti teorizzati da Rachel Armstrong e Mitchell Joachim. La prima propone di affrontare la minaccia che la proliferazione degli organismi endemici della laguna di Venezia pone all’integrità delle sue fondamenta: protocellule programmate per sopravvivere in un ambiente marino dove, spostandosi lontano dalla luce ed entrando in contatto con le fondamenta lignee della città, possano sintetizzare una matrice calcarea che finisca col “pietrificarle”, conferendo loro integrità strutturale e maggiore resistenza, senza intaccare la biodiversità delle specie residenti che troveranno, all’interno di queste neoformate strutture di carbonato di calcio, un ambiente favorevole al loro sostentamento.

Il secondo, di formazione bostoniana, propone con il suo studio TerreformOne il progetto Mycoform, in cui il fungo parassita Ganoderma lucidum viene alimentato con rifiuti urbani, fatto crescere in forme predeterminate e, dopo l’aggiunta di uno strato protettivo fatto con materiali di riciclo, utilizzato direttamente come materiale edile economico e low-tech. Come proof of concept, TerreformOne ha cresciuto una replica in scala del New Museum di Manhattan in soli dieci giorni, utilizzando pellet combustibile di quercia, crusca, gesso, ed acqua ossigenata come substrati. Una simile strategia potrebbe essere sfruttata per creare megastrutture ecosostenibili, anche in paesi in via di sviluppo.

Mycoform applicato al New Museum NYC , Progettisti: M. Joachim, M. Aiolova, O. Medvedik, D. Butman, G. Mulholland, fonte: http://www.terreform.org/projects_habitat_mycoform.html

New Museum NYC grown of Mycoform

Sempre lo studio TerreformOne ha sviluppato il progetto Fab Tree Hab: abitazioni de facto vive, prefabbricate utilizzando supporti riutilizzabili attorno i quali crescere piante opportunamente modellate tramite la tecnica dell’innesto. L’idea riprende quella dei ponti sospesi di Cherrapunji, fatti guidando gli accrescimenti aerei della pianta Ficus elastica in un’unica struttura fibrosa in grado di sostenere il peso di diverse persone. Seppur nella pagina ufficiale di Fab Tree Lab le biotecnologie siano menzionate solo una volta, il potenziale apporto che queste possono fornire al progetto è quasi illimitato.

terreformone fab tree hab

Fab Tree Hab, Architetti: TerreformOne, Fonte: http://www.archinode.com/Arch9fab.html

Sarebbero ad esempio implementabili delle strategie di controllo della crescita, per riparare danni strutturali o espandere la superficie abitabile. Contemporaneamente, l’edificio stesso potrebbe essere in grado di sanificare il suolo dai metalli pesanti (una tecnica attualmente utilizzata e che prende il nome di fitorisanamento), e modulare le condizioni di illuminazione, aerazione e scambi termici con l’esterno in funzione dei parametri ambientali.

Un’ipotetica megalopoli potrebbe, già nel prossimo decennio, limitare i danni da calamità (ad esempio, prevenire allagamenti immagazzinando l’acqua in strati di protocellule e materiali spugnosi a turgore variabile, sotto il manto stradale), ri-edificare sé stessa tramite la modellazione di edifici e quartieri, degradare i propri prodotti di scarto ed ottenerne nuovi materiali edili, e produrre in loco tutte le risorse di cui ha bisogno, dall’energia all’acqua potabile, al cibo coltivato in fattorie verticali. Le tecnologie emergenti possono essere dunque integrate in un connubio di sistemi di diversa origine – chimica, biologica, computazionale, robotica – che fornisca alle abitazioni, e magari per estensione alle città stesse, le proprietà in cui sono attualmente sub-ottimali, in primis versatilità e sostenibilità.

L’attuabilità di quanto finora descritto è ancora problematica. Anzitutto le limitazioni tecniche ed economiche rendono ad oggi queste tecnologie poco disponibili allo scaling-up: rimangono per ora limitate agli ambienti contenuti dei laboratori. Ricordiamo però che sessant’anni fa i computer pesavano alcune tonnellate ed occupavano stanze intere. Forse, l’ostacolo più difficile da sormontare sarà in realtà quello di forma mentis, con tutte le sue implicazioni etico-giuridiche. La paura innata verso la tecnologia, che da sempre ci caratterizza — se non come individui, almeno come collettività — pone un grosso limite al progresso scientifico-tecnologico, e forse non del tutto ingiustificato.

Il confronto con l’opinione pubblica è fondamentale per una revisione critica delle tecnologie in via di sviluppo. Se da un lato i rischi immediati vengono accertati e prevenuti, dall’altro le conseguenze indirette possono essere meno facilmente riconoscibili, e potenzialmente deleterie. Quanto l’accessibilità alle tecnologie ha cambiato il nostro modo di vivere e pensare il mondo? Come ha influenzato la società, sia in termini collettivi che di soggettive relazioni interpersonali? Che nuovi problemi sono nati dal cattivo utilizzo — colposo o meno — delle nuove tecnologie? Affinché la realizzazione di questi progetti, ad ora utopici, sia eticamente accettabile, porsi queste domande è indispensabile. Non bisogna però dimenticare che le tecnologie nascono per curiosità e si sviluppano per necessità, e trovare un compromesso accettabile è ora più che mai fondamentale. L’obiettivo è ancora lontano, ma non fuori portata: questo è il momento della mobilitazione. Siamo già in ritardo, a corto di bottiglie e a corto di brodo.

guest writer | Francesco Guzzonato

Francesco Guzzonato, 24 anni, è un biotecnologo, biohacker e wannabe scrittore italiano di stanza nei Paesi Bassi. Laureatosi nel 2013 in Scienze e Tecnologie Biomolecolari presso l’Università di Trento, è co-fondatore dell’associazione no-profit O.W.L. – Open Wet Lab per la promozione dell’open source nelle scienze biologiche. Appassionato di botanica, sta correntemente conseguendo una laurea specialistica in biotecnologie vegetali presso l’università di Wageningen, e parallelamente collaborando in loco con alcuni colleghi per la creazione di un giardino acquaponico pubblico.

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