Il suono delle ossa. 1- Il corpo come cassa armonica

(dedicato a Victorien Sardou e alle sue case musicali)

Staffa è il nome del più leggero e piccolo osso del corpo umano: Sta nell’orecchio e dalla sua cavità passa il sonoro. Altri ossicini accanto hanno nomi di arnesi: incudine, martello. L’ascolto è più officina che sala da concerto. Poi il suono attraversa una serpentina di nome labirinto, trova l’uscita e arriva al cervello, fine della corsa. L’ascolto è un’onda che non torna indietro

Erri De Luca, La musica provata.

 

Marcello Sestito. Il suono delle sfere celesti

 

Conservate in una teca del Museo di Storia Naturale di New York, delle ossa, probabilmente tibie e femori umani, ferite con delle tacche per tutta la loro lunghezza hanno generato suoni per popoli primitivi intenti ad ascoltare ciò che la voce del corpo suggeriva.

Perché, prima di tutto, il suono è dentro di noi, ci invade e pervade a partire dalle viscere o dal gorgoglio dello stomaco, dal ritmo cardiaco che stabilisce, nel tempo, la misura metrica per ogni suono; al battito del polso, quasi impercettibile all’orecchio umano, fino ai suoni meno gentili e rumorosi che sono stati di ispirazione per Joseph Pujol, Rabelais o per la satira di un Grandiville.

Il suono e pertanto la musica sua organizzatrice, ci invade e trae da noi la sua prima esperienza, come se il corpo si predisponesse a strumento, sia esso produttore di canto o fischio, urlo, flato (rutto) o sussurro.

Il corpo è la prima cassa-casa armonica dove la struttura ossea anticipa l’ossatura architettonica, non a caso si parla di scheletro dell’edificio, è la prima sede dove il suono oltre ad essere prodotto, riverbera e viene percepito.

Questa coincidenza tra corpo, suono e architettura si palesa nell’espressione di Goethe, sempre alla ricerca del tutto primigenio, che voleva l’architettura: musica congelata o, come diremmo noi, la musica: architettura eterea.

Per Schelling l’architettura è musica cristallizzata, una bella costruzione non è altro che una musica percepita con gli occhi, un concerto di armonie e collegamenti armonici espresso non in una successione di tempi, ma in una successione di spazi.

Se ne accorse bene il drammaturgo francese Victorien Sardou che, tra i suoi magistrali disegni evanescenti, ci propone persino la casa di Mozart. Disegni dai tratti sincopati e puntiformi a seguire un andamento sfuggente eppure palpabile della partitura, un disegno di punti e linee spezzate che configura immagini non prive di profondità come se in queste architetture potessero abitare degli spiriti eletti o allusivi fantasmi sonori. Un disegno non dissimile da quello di Bruno Taut, Haus des Himmels, dove, nella parte inferiore della figura, si legge il riferimento al 3° tempo della IX sinfonia di Bruckner.

Victorien Sardou. Zoroaster “il quartetto degli animali”, habitation de Jupiter, la casa di Svedenborg

Wright nella sua autobiografia è esplicito: “suo padre gli insegnò a scorgere in ogni sinfonia un edificio, un edificio di suoni”.

Similitudini tra gli spartiti musicali e alcune notazioni architettoniche sono state rinvenute da Gillo Dorfles in anni passati in un testo esemplare che annotava l’idea di come la musica possa essere assaporata ad indicare che oltre ad un’ascoltazione della musica così come viene eseguita, o come la possiamo eseguire, esiste una forma fruitiva della stessa che risulta soltanto dalla lettura della sua notazione, non solo, ma richiede che la musica viva oltre al suo fluire diacronico e, in un certo senso, si spazializzi e si riduca da evento diacronico a evento (od oggetto) nettamente sincronico”.[1]

Medesimo discorso potrebbe farsi considerando il valore del progetto d’architettura indipendente dalla sua realizzazione. Probabilmente anche l’architettura può (e deve) essere assaporata considerando che la sua realizzazione può essere assimilata ad una ‘esecuzione’: una tra le tante possibili. Si capisce così il monito di Le Corbusier: “La certezza di un’ opera risiede nella sua esecuzione concreta solo per i profani, gli sciocchi o gli impotenti. Quanto a noi … attendiamo il ‘si’ di un’Autorità che voglia e che vegli”. [2]

Robert Fludd. Tempio della musica

È chiaro che il progetto, assume così tutt’altro peso, più che anticipare (a volte banalmente) la sua esecuzione come procedimento meccanico e consequenziale, il progetto racchiude la sua intrinseca verità, la sua autografia, “allorché un’opera tecnica è disegnata sulla carta (cifre e modelli) essa è” (Le Corbusier). Probabilmente l’attenzione rivolta agli spartiti architettonici da parte di molti architetti risiede nella volontà di trasporre nella propria disciplina una oggettività e una trasmissibilità del disegno.

Sulla scorta di tali osservazioni possiamo meglio intendere le puntualizzazioni di Franco Purini sulla centralità dell’idea di progetto: “in quanto atto consapevole che si traduce in un sistema di scritti e disegni, il progetto si configura come una ouvre complète, dotata di una totale autonomia al di là della sua traduzione in una costruzione concreta. Questa è infatti una semplice eventualità espressa dal progetto nella sua qualità di dispositivo previsionale di azioni future. Azioni che spesso hanno realmente luogo, producendo così edifici, città, paesaggi, ma che non sembrano trarre il loro significato dal solo avverarsi. Nel momento in cui rimane tale, cioè la rappresentazione di una possibilità, la predizione progettuale rovescia infatti la propria inattuazione in una essenziale virtualità saggistica, in una necessaria vocazione analitica, in una insostituibile dimensione estetica”. [3]

Chiarita la portata storica del progetto che non vuol dire però esclusione premeditata della realizzazione come una delle potenziali verifiche, resta da chiarire ancora, per noi, il perché della ricorrenza (periodica) all’uso di spartiti architettonici imitanti notazioni musicali.

Probabilmente questo tendere delle arti verso l’iconicità di cui parlava Gillo Dorfles, a distanza di tempo, si è rivelato esatto. Così come il loro tendere verso una oggettualità e trasmissibilità operativa, ha visto pure “l’apparente artificio di una notazione, talvolta eccessivamente compiaciuta e graficamante preziosa”. [4]

Difficoltà decriptatorie si registrano ormai in più direzioni soprattutto la dove il processo compositivo è mascherato sotto forma di esibizionismo formale legato all’esasperazione combinatoria degli elementi. Lo spartito architettonico, invece che rivelare la portata del progetto, la sua complessità, si traduce nella manifestazione della sua spettacolarità. Il vecchio pentagramma musicale sconvolto dai diversi e recenti esiti della ricerca musicale diviene in alcuni casi solo pretesto per organizzazioni planimetriche, per impianti che semplicemente imitano la processualità e sistematicità della notazione musicale. Se è vero che anche quest’ultima ha non pochi debiti con la pittura o l’architettura stessa, è vero che se ne è fatto un uso puramente strumentale allo scopo di dimostrare, in più casi, l’aleatorietà della ricerca compositiva.

Tra i fattori di rilievo è piuttosto lo stile grafico a subire dei confronti “a provare l’esistenza di acute analogie (o se vogliamo ‘omologie’) tra le diverse arti”. [5]

Ma se il luogo d’origine di un’opera, come accennavamo in precedenza, è simile per tutti, cioè il corpo intero come voleva Florenskij, si assiste ad una sorta di circolarità delle arti che presentano aspetti tra loro comuni pur nel rispetto delle identità disciplinari. La musica si pittorizza, e la pittura si musicalizza così come in tempi lontani si musicalizza l’architettura che a sua volta si teatralizza, si pittorizza … fermo restando le acute notazioni di Auden quando ammonisce: il pericolo sta nel mutare le analogie in identità, nell’affermare, per esempio, che “la poesia deve somigliare il più possibile alla musica. Ho il sospetto che i più inclini a tale affermazione siano gli stonati. Più si ama un’altra arte, meno si prova il desiderio di invaderne il campo”. [6]

 

Victorien Sardou. casa di Mozart, casa di Zoroastro

 

Esemplare rimane comunque la dichiarazione di Silvano Bussotti: “la fusione delle arti è sempre avvenuta in maniera impropria: ogni arte ha finito per mantenere intatti i suoi elementi specifici. Io vorrei comporre una musica nella quale fossero trasferite totalmente immagini pittoriche”. [7]

“Tanto che il musicista che il pittore (ma anche l’Architetto) avevano impostato il loro discorso sopra una pedana di simbologia occulta in cui il potere magico-misterico del numero, la misteriosa intelaiatura pitagorica, costituiva un’insolita trama”. [8]

L’armonia dell’architettura legata ai moduli proporzionali pitagorici, di Aristosseno, fino alle elaborazioni numeriche di Eurito di Crotone [9], alla Mano Guidonica, attraversando tutto il Rinascimento resiste velatamente fino ad oggi, anche se “solo le dissonanze, cioè le sproporzioni (e pertanto le disarmonie), riescono a rendere l’atmosfera dinamica, tragica e scomposta del mondo attuale”. [10]

Sulla geometria del suono si è soffermato Vincenzo Galilei nel suo Dialogo della musica antica et della nuova, ricordato dal Rykwert, [11], così come Battisti chiarisce, attraverso “un tentativo di analisi strutturale del Palladio tramite le teorie musicali del Cinquecento e l’impiego di figure retoriche”, il metodo compositivo dell’architetto vicentino, fino a dichiarare che “l’impressione di omogeneità e di equilibrio è la conseguenza di un abilissimo coordinamento di parti disomogenee … e non di una giustapposizione simmetrica di moduli, o di rapporti elementari”.[12]

Note di Pitagora

Lo stesso Palladio viene riletto da Portoghesi assieme a Mozart, Borromini affiancato a Schubert, e prima il tempio greco classico con le sue colonne che rievocano la compostezza degli Opliti.

Ancora oggi si cerca di “Progettare a Tono” [13] anche se questo ‘tono’ è sincopato, atonale, jazzistico (come la Muraglia Senese di Lapo Binazzi) o completamente disarmonico. Singolare il lavoro di Sergio Laos che traduce in architettura il tema di una canzone russa, e dove la direzione delle varie lingue corrisponde alle note la cui durata è rappresentata dalla lunghezza dei segmenti. [14]

Si assiste allora “all’apertura delle composizioni moderne, che si dispongono sul terreno sfrangiando le membrature, evitando accuratamente ogni conclusione, esattamente come la musica moderna interrompe un ‘pezzo’ ”. [15]

Il lavori di Bernard Tschumi, il diagramma di progetto per l’Opera di Tokyo, lo stesso lavoro sul ritmo di Ginzburg; il disegno sul ‘programma’ e sullo ‘spartito’ architettonico di Paolo Martellotti per il suo progetto di piazza e di edificio lamellare e lo stesso Libeskind, formatosi musicalmente, confermano tale interesse.

Interesse dei progettisti d’architettura verso la musica e la partitura musicale che non sembra arrestarsi; l’antico retaggio platonico e pitagorico resiste tra le ‘righe’ (iki) dell’architettura. Probabilmente perché si è ancorati ad un ideale di economicità di gesti o ad una garanzia di controllo modulare o ritmico dell’opera. Del resto a riguardo così diceva Gropius: “Sullo schema di sole 12 note è stata creata la musica più alta. Non v’è dubbio che la limitazione rende inventiva una mente creatrice”. [16]

Recentemente per opera di alcuni studiosi di settore, siamo pervenuti ad un interscambio quasi totale tra le parti in gioco. L’informatica musicale cerca di rispondere, e in parte lo ha già fatto, ad alcune domande poste da Antonio Rodriguez in anni passati: “perché non estrarre dal testo scritto la musica contenuta? … Perché non estrarre dalle forme grafiche la musica che queste possono esprimere? … Che suono ha il colore rosa … che suono emette una radiogalassia? La via per rispondere a queste quattro domande, era quella di cercare delle metafore capaci di trasferire le informazioni degli esempi citati al mondo delle informazioni musicali.

 Il mezzo per poterlo fare in modo sistematico era creare appositi programmi per elaboratore capaci di operare come scatole nere che potessero accettare come input le informazioni sia linguistiche, sia grafiche, sia fisiche e in grado di rendere come output le specifiche informazioni musicali e/o sonore ed anche psicopercettive”.[17]

Dati i risultati raggiunti, alcuni di questi lodevoli, c’è da chiedersi cosa succederebbe se si decidesse di musicare gli Alfabeti d’Architettura, o di estrapolare direttamente le note dai più importanti monumenti esistenti: che suoni avrebbero il Colosseo, la piramide di Cheope, il Partenone?

Marcello Sestito | co-writer

Seguirà a breve su questa stessa rivista il “il suono delle ossa. 2- tentazioni quantiche”

Note

1-Cfr. Gillo Dorfles, Artificio e natura, Einaudi, Torino 1968, p.152. L’autore dedica all’argomento un intero capitolo: Oggettualità e artificio nella notazione musicale moderna.

2-Vedi Francesco Tentori, Vita e opere di Le Corbusier, Laterza, Bari 1979, p.89. Sulla concretezza e verità Wright si spinge ancora più lontano “… i fatti non danno la verità più di quanto le tavole, i mattoni e la calcina diano all’architettura. Solo l’immaginazione, servendosi onestamente dei fatti come di un mero materiale strutturale, può infondere in essi tanto spirito da far si che un’altra vita, la vita dell’uomo, assuma una forma originale e ispiratrice. L’opera d’arte”. (Cfr. F.L.Wright, Una Autobiografia, Jaca Book, Milano 1985, p.340.

3-Cfr. Franco Purini, Architettura senza architetti, in “Casabella”, n.582, settembre 1991, p.42.

Riportiamo un brano di Vittorio Magnago Lampugnani che chiarisce questo aspetto. I “l’avventura delle idee 1750-1980, Electa, Milano 1985, leggiamo: ”La decisione di affidare la documentazione della storia dell’architettura a disegni e modelli architettonici annulla la differenza fra il costruito e il non costruito; all’interno di una visione così ampliata, la realizzazione fisica, che il più delle volte dipende direttamene dalla situazione economica del momento, non è più una ‘conditio sine qua non per l’architettura. Attraverso schizzi, disegni e plastici diviene possibile presentare ideazioni architettoniche ‘tout court’ … soprattutto perché non di rado le “architetture da cassetto” sono segnavia storici, culturali e artistici importanti almeno quanto ciò che viene poi costruito.

Nei progetti disegnati sotto la spinta audace dell’utopia, al di fuori delle costruzioni di carattere pratico, l’idea si rivela con più immediatezza. La creatività appare nella sua forma più pura, le visioni non angustiate dai compromessi, si sviluppano liberamente in tutta la loro complessità, apparentemente distaccata dalla realtà, contribuiscono invece per prime a modificarla attraverso i loro impulsi sovversivi.

A ciò si aggiunge che sovente disegni e modelli architettonici rendono visibile la genesi del progetto: l’idea originaria lascia le proprie tracce sul materiale, le successive fasi di elaborazione rimangono palesi come, insomma, le grafiche e i plastici architettonici possono esprimere assai più che non l’architettura realizzata. Tecnica, forma di presentazione, taglio, formato, conduzione delle linee, ‘ductus’ tutto getta luce sul proposito intellettuale dell’autore. Anche la presenza o l’assenza, a fianco degli elaborati definitivi, di schizzi del progetto è significativa: indica se lo strumento del disegno è usato come parte integrante del processo di progettazione, o se invece quest’ultimo si sviluppa in maniera completamente astratta e intellettuale. Disegni e modelli d’architettura sono quindi testimoni tanto incisivi quanto precisi di atteggiamenti progettuali; inoltre raggiungono talvolta un valore artistico proprio e la dignità di opere a sé stanti. Opere a sé stanti nel corpo disciplinare dell’architettura. Queste sono: progetti che effettivamente sono stati realizzati fisicamente; progetti ideati per venire costruiti ma che poi, per una qualche ragione, non poterono divenire realtà; progetti, infine, creati nella consapevolezza della loro irrealizzabilità, per esempio, le visioni della “Città nuova” di Antonio Sant’Elia”, pp.19-20.

“La concezione della mostra -sostiene Magnago Lampugnani- fonda sulla convinzione che non esista ‘una’ storia dell’architettura, bensì che ne esistano tante. Queste storie molteplici sono talvolta parallele e talvolta opposte; spesso si sovrappongono, si scontrano, si uniscono e nuovamente si dividono. Il loro numero, lungi dal potersi definire ontologicamente, dipende dal livello specifico di osservazione”. Come dire con Battisti che “come una pica parlante, di razza, la storia risponde sempre con la voce di chi l’interroga”.

Tali osservazione sono apparentabili alle affermazioni di Baldinucci- come ci fa notare Silvana Macchioni, Il Disegno nell’arte italiana, ed. Sansoni, Milano 1975- il quale in una lettera al marchese Capponi, luogotenente dell’Accademia del disegno (1681), aveva scritto di “intendere col nome di opere non solo le pitture, ma anche i Disegni che i Pittori fanno nelle carte, e fino a ‘primi pensieri’, o schizzi”, p.61. O ancora:”I disegni riflettono con immediatezza, a guisa di una scrittura, il modo di sentire e di pensare dell’artista, cioè il suo stile e la sua poetica appaiono indeboliti dal processo riflessivo e dalle correzioni”, p.62.

Cfr. inoltre il nostro testo “Il sogno dell’architetto” in Gran Bazar n.64, ottobre-novembre 1988, p.35 e sgg, lo scritto è contenuto nell’articolo di Eugenio Battisti, L’utopia di Marcello.

4-Cfr. Gillo Dorfles, cit.p.177.

5-Ibid.p.162.

6-Vedi W.H.Auden, La mano del tintore, Adelphi, Milano 1999, p.71.

7-Le dichiarazioni di Bussotti sono contenute nell’articolo: Vorrei dipingere con le note, colloquio tra Claudio Casini e Sylvano Bussotti, “Repubblica”, mercoledì 18 settembre 1991. Cfr. inoltre Spartito preso, AA.VV. , Vallecchi, Firenze 1981; e di G. Gasperini, Storia della Semiografia Musicale, Hoepli, Milano 1905.

8-Cfr. Gillo Dorfles, cit. ,p.159.

9-Vedi a tal proposito le indicazioni contenute nel testo di Michela Sassi, Tra religione e scienza il pensiero pitagorico, in Storia della Calabria antica, ed. Gangemi, Roma 1988. Su Eurito leggiamo a p.575: “Eurito di Crotone discepolo di Filolao attivo sul finire del V sec. A ciascuna cosa assegnava un suo numero (all’uomo, al cavallo, a una pianta) riproducendone poi la forma con dei sassolini-o ancora-sia per così dire, termine (horos) dell’uomo il numero 250, e il 360 quello della pianta; posto ciò, prendeva 250 sassolini, alcuni verdi, altri neri, o rossi, insomma di tutti i colori; poi, spalmato un muro di calce e delineatevi la figura dell’uomo o di una pianta, ficcava queste pietruzze parte nelle linee del volto, parte in quelle delle mani, altre in altre; e così completava l’imitazione della figura umana mediante pietruzze uguali di numero alle unità che, a suo dire, definiscono l’uomo”.

10-Cfr. Ludovico Quaroni, Progettare un edificio, otto lezioni di architettura, Mazzotta Milano 1977, p.162, in particolare consulta la lezione sesta-La geometria dell’architettura– e i paragrafi 35-36-37, da p.161 e sgg.

11-Cfr. J. Rykwert, I primi Moderni, ed. Comunità, Milano 1986, p.58.

12-Cfr. Eugenio Battisti, In luoghi di avanguardia antica, Casa del Libro, Reggio Calabria, 1979, p.167 e sgg.

13-La definizione è anche il titolo di un articolo di Bruno Pedretti, in “MODO”, n.56, gennaio-febbraio 1983, p.66, che tratta di numeri, musica e progetto nelle cosmogonie umanistiche, quando l’architettura era traduzione di rapporti aritmetici.

14- Cfr. Giovanni Lauda, Profilo di un outsider, in “MODO”, n.82, settembre 1985. La pianta dell’edificio (Muraglia senese di Lapo Binazzi), come osserva G. Lauda è una scrittura automatica, uno schizzo immediato, una ispirazione per successive esecuzioni … è una grammatica che ha comunque dei punti di riferimento, delle citazioni, ma mai prefigurate”, p.49. Vedi inoltre di Sergio Laos, Disegni e costruzioni di architettura, “Parametro”, n.174, settembre-ottobre 1989, p.9.

15-Cfr. Ludovico Quaroni, cit., p.170.

16-Cfr. Walter Gropius, Architettura integrata, Il Saggiatore, Milano 1963, p.68. Vedi inoltre sul rapporto musica architettura, di Kuki Shūzō, La struttura dell’IKI, Adelphi, Milano 1992, a p.118 leggiamo: “Così come è stato detto che l’architettura è musica rappresa, si può anche definire la musica come architettura fluida”. Cfr. inoltre di Le Corbusier, La casa degli uomini, Jaca Book, Milano 1985, in particolare nel IV cap.: “Architettura e musica” e “La musica architettata”, da p.130 a p.132.

17-Il lavoro di Toni Rodriguez è illustrato in “Gran Bazar”, n.67 aprile –maggio 1989, nella rubrica ricerca e progetti: autori, pp.90-91. Vengono presentati quattro progetti semplificati che rispondono alle domande poste da Rodriguez condivise con i componenti del LIM (Laboratorio di Informatica Musicale) del Dipartimento di Scienza dell’Informazione dell’Università degli Studi di Milano. Riportiamo qui in basso, per maggiore chiarimento, la descrizione degli esperimenti realizzati: “I quattro progetti sono stati portati avanti come tesi di laurea. Il primo realizzato da Patrizia Crippa, Michele Bastardi e me, si chiama Traslitteratore ed è un programma capace di trasferire in musica qualsiasi testo. La metafora consiste nel considerare l’unità musicale come sillaba, ovvero, ad ogni sillaba corrisponde una nota; se la sillaba è lunga la nota è lunga proporzionalmente, se la sillaba è accentata la nota è accentata, se la sillaba contiene dittonghi, la nota gode di ornamenti (tipo acciaccatura o appoggiature); l’altezza della nota viene determinata dopo uno studio statistico dei fenomeni della sillaba e messa in corrispondenza con una scala disegnata appositamente in modo interattivo dall’utente. I risultati musicale della traslitterazione su poemi del Foscolo, Shakespeare, ed altri è veramente sorprendente. Il secondo è un programma grafico realizzato da Paolo Morini sotto la direzione di Goffredo Haus. Il programma, chiamato “Temper” applica le leggi della cristallografia (le stesse che utilizzava Escher per realizzare le sue “Metamorphosis”) e studia la trasformazione di figure che dividono la superficie in modo regolare chiamate Tassellazioni. Una volta realizzate queste trasformazioni il problema consiste nel “suonare” queste figure. Così come il linguaggio parlato si evolve nel tempo, il parallelismo con la musica diventa semplice quando l’informazione grafica si presenta in modo “totale ed istantaneo”; questo implica il considerare il fenomeno di scansione, una volta implementata una scansione dell’immagine e sottoporre l’immagine ad una griglia musicale, quando la barra di scansione “tocca” l’immagine attiva l’evento musicale presente a sua volta nella sottogriglia e così via … I risultati non sono spiegabili con le sole parole, bisogna vederlo-ascoltarlo, il risultato concettuale è ancora più bello perché la musica è veramente determinata dall’immagine e a sua volta è sincronica. Il terzo progetto iniziato da Fiorella Terenzi ed ancora aperto, non ha prodotto ancora nessun programma ma bensì un primo nastro realizzato in collaborazione con il Center for Music Experiment (CME), Computer Audio Research Laboratory, University of California, San Diego dove è stata svolta parte della tesi, una serie di nastri forniti dagli Astrofisici dell’Università degli Studi di Milano contenenti delle informazioni sull’osservazione temporale a 4,5 Gigahertz della Radiogalassia UGC 6697, sono state trasferite usando un VAX ad un range “udibile” con dei risultati se non chiaramente musicali almeno curiosi. Una sistematizzazione di questo approccio può permettere di usare anche l’udito come elemento di avvicinamento ai fenomeni stellari, oggi l’uso di DSP può permettere anche ai Personal Computer abbinati a queste schede, di realizzare in tempi relativamente accettabili queste esperienze. Il quarto progetto, frutto della tesi di laurea di Stefano Bellini è estremamente curioso, il programma chiamato “Analisi” oltre a realizzare in una prima fase l’analisi delle caratteristiche armoniche (secondo l’armonia tradizionale) di qualsiasi brano scritto a quattro voci, realizza una “riduzione” del contenuto del brano secondo delle regole studiate da Lerdhal & Jackendorff (due famosi ricercatori della psicopercezione musicale). Questo “riassunto” musicale ha tenuto conto delle informazioni considerate “significative” e restituisce un brano ridotto (circa dal 75% all’80%) che realmente ricorda l’altro originale. Sulla composizione in musica è utile confrontare. Luciano Berio, Intervista sulla musica, a cura di Rossana Dalmonte, Laterza Bari 1981, in particolare il capitolo: Il mestiere di compositore, da p. 95. Sul rapporto musica-architettura vedi ancora di F.L. Wrigt, Casa Hollyhock, attollyood, in: Una autobiografia, Jaka Book, Milano 1985, p. 200 e sgg.

 

Ps. -Il testo estende quanto pubblicato in Alfabeti d’Architettura, Gangemi, Roma 1994, in particolare il capitolo: Spartiti architettonici interamente dedicato a Musica e Architettura, pp.91-100. Ora in Corpo e Architettura, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2017,pp.245-257.

Numerosi sono i testi che si sono occupati dell’argomento, tra i tanti: Paolo Portoghesi, Musica e architettura, in Leggere e capire l’architettura, Newton Compton, Roma 2006, pp.69-96; Ruggero Pierantoni, Verità a bassissima definizione, Einaudi, Torino 1998; Giovanni Giannone, Architettura e musica, questioni di composizione, Edizioni Caracol, Palermo 2010; Roberto Favaro, Spazio sonoro, musica e architettura tra analogie, riflessi, complicità, Marsilio, Venezia 2010; Francesco Amendolagine, a cura di, Le architetture di Orfeo, Musica e architettura tra Cinquecento e settecento, Gianpiero Casagrande editore, Milano 2012; AA.VV., Musica & Architettura, coordinamento di Lucio Valerio Barbera e Giorgio Nottoli, Nuova Cultura, Roma 2012; Vittorio Gregotti, Il sublime al tempo del contemporaneo, Einaudi, Torino 2013, il capitolo Spazio e suono, pp.111-124. Vedi ancora: Murray Schafer, Il paesaggio sonoro, Unicopli,Milano 1985, e V. G. Anzani, Sound perception and landscape identity, in Living landscape. The European Landscape Convention in research perspective, atti del convegno internazionale, Firenze 18- 19 ott. 2010, Baldecchi&Vivaldi,Pisa 2010.

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