Questo libro riveste diversi significati e allo stesso tempo vuole servire per riequilibrare questioni che riguardano la scrittura di architettura oggi, nell’era dei social. Cercherò, prima, di spiegare l’evoluzione di alcuni miei lavori per illustrare questi diversi significati per chi ha studiato e lavorato con me, per capire, poi, la profondità della formula “sceneggiatura delle scelte concrete” e per sottolineare, infine, perché questa azione sulla scrittura di architettura e questo libro siano oggi, secondo noi, veramente necessari.
Per una lunga fase abbiamo sofferto in Italia di “Architettese”. Si trattava di una scrittura densa di riferimenti criptici, semi incomprensibile, lontana dai fatti concreti del fare architettura e di una autoreferenzialità insostenibile. L’epicentro credo che sia stato attorno al 1975 dopo «Contropiano», dopo Progetto e Utopia. La generazione precedente di scrittori di architettura, basti pensare a Paolo Portoghesi, e prima a Leonardo Benevolo o a Bruno Zevi e prima ancora a Giò Ponti, a Edoardo Persico a Giuseppe Pagano a Raffaello Giolli, scriveva in maniera limpida, chiara e forte.
Sono stato vittima dell’Architettese degli anni Settanta come i tanti studenti di quegli anni e giovani architetti negli anni Ottanta dello scorso secolo. Ad un certo punto mi dissi: “No… voglio fare un libro che insegni veramente a fare l’architettura, voglio far capire ‘come’, illustrare i principi, i modi, il contesto reale”. Mi esercitai e nel farlo imparai.
Cominciai quando tornavo da Rignano Flaminio dove insegnavo come docente alle Scuole medie (ancora mi stupisco dell’energia che avevo) con lo scrivere della Casa Buten e poi a poco a poco di tutte le altre. E mi domandavo: “E questo si capisce? E il lettore è in grado di rifarlo? E quale disegno devo mettere nel libro per spiegargli veramente il trucco?” Fargli capire… fargli capire… questa era la mia ossessione. In risposta a quell’Architettese in cui non si capiva nulla (tra l’altro spesso usato per scrivere di un’architettura altrettanto inconcludente… come se architettura e linguaggio si chiamassero l’una con l’altro… e in cui il prestigio dello scrittore passava esattamente nel non far capire niente) mi ostinavo solo soletto a fare qualcosa di diverso.
Diedi un pezzo del mio manoscritto (già impaginato in Adobe Pagemaker® e stampato al laser, credo che fossi l’unico che l’aveva allora in Italia) al mio coordinatore di dottorato. Dopo due giorni mi convocò nel suo ufficio e davanti a me telefonò ad Aldo Quinti, il fondatore e il proprietario della casa editrice Officina. “Aldo qui c’è un giovane bravo… vorrei fargli fare un libro… sì nella collana del dipartimento”. E così uscì Un architetto americano: Louis Sauer nel 1988, con prefazione di Paola Coppola Pignatelli – appunto direttore del Dipartimento di Progettazione Architettonica e Urbana e coordinatore del Dottorato da lei stesso fondato. Era il secondo libro della collana del Dipartimento, dopo il primo di Luigi Gazzola (Architettura e Tipologia) e ricordo Gazzola che mi disse: “Eh si, il tuo libro di Pagano, così e così, invece questo su Sauer!” E voleva dire forte, con questo tema nuovo, con questa scrittura tutta architettonica.
Nel frattempo mi appassionavo ai primissimi computer! Il bello era che si stava in una sorta di officina con tanti attrezzi. Quelli per scolpire i modelli, quelli per farli con le lastre di un falegname, gli strumenti fotografici, quelli di disegno ma anche il cinema, l’animazione, la musica, il montaggio.
Mi immersi sempre di più in questa sorta di nuova bolla, completamente diversa dalla camera chirurgica cui ero stato educato (china e matita e basta!), e mi cambiò la testa. Cominciai a pensare a come raccontare e a scrivere di architettura facendo intervenire il prima e il poi… il tempo: “Quale è la scelta vincente di un progetto? Come da quella mossa si concatenano le altre? Come si sviluppa la coerenza di una azione progettuale?” Niente funzionava bene come Louis Kahn per far capire questa sequenzialità delle scelte: niente!
E mi buttai a capofitto ad analizzare le opere di Kahn montandole e rimontandole un poco come gli amanti fanno con le loro motociclette. Kahn era magico, tutto tornava. Potevo fare dei film di animazione che facessero capire veramente la sua architettura e poi, dato che avevo scoperto l’intima coerenza del ragionamento di Kahn nel progetto finale, potevo anche capire le strade secondarie che il Maestro aveva intrapreso e poi abbandonato: gli schizzi con una idea senza futuro, le tante prove e riprove.
I miei giovani amici conoscono le mie sindromi recenti (Borromini, Caravaggio, forse Gehry e Eisenman) ma non sanno nulla della mia grande sindrome kahniana.
Insomma facevo pionieristici film di animazione delle varie fasi del progetto: quelle spaziali, quelle simboliche, quelle costruttive concatenando logicamente le scelte. Non era un esercizio fine a se stesso perché insegnavo questi processi ai miei studenti di allora. Parliamo di Carnegie-Mellon University a Pittsburgh nel 1985: il mio futuro, la mia incredibile modernità. Una classe di studenti, un bello stipendio, ragazzi che mi amavano, io giovane e il Macintosh® 128K e poi 514K. Naturalmente lavoravo molto a partire dal concetto di “stanza” che era alla base della rivoluzione kahniana. Kahn faceva convergere tutto nella stanza: una nuova unità dove funzione è forma, luce è struttura, impianti è bellezza! Ho trovato una incredibile citazione di Bill Viola che dice “compresi il concetto della stanza come strumento”[1]. Certamente si adatta a Kahn, a ben pensarci, e non solo a Caravaggio.
Tornato in Italia mi misi in testa un progetto ambizioso (per la verità avevo anche un bel Grant con la Graham Foundation insieme al fotografo Dennis Marsico). Era su Giuseppe Terragni.
Ma era appena uscito Giuseppe Terragni: opera completa 1925-1943 (Officina Edizioni 1987) della compianta Francesca Marcianò, non c’era spazio per un altro libro. Allora come con la Buten di Sauer cominciai opera per opera, a studiarla, a smontarla, a capirla “dentro”, nella sua logica progettuale, e “fuori” nel suo contesto culturale e storico. Bruno Zevi era in pensione, ed era diventato quasi empatico. Mi ricordo che quando andai al suo studio con la mia cartella di disegni delle Officine del Gas mi chiese del mio bambinello appena nato, Raffaele. Una cosa inconcepibile nei tanti anni dei seminari di critica operativa quando era di una aggressiva energia, difficile da sostenere.
Insomma Zevi fu entusiasta e in sequenza pubblicai articoli e saggi su «L’Architettura. Cronache e storia» con questa impostazione. Smontavo e rimontavo l’architettura e scrivevo un saggio sulle regole formative e sul contesto culturale. Perché il Novocomum nel 1929 è importante? Perché lo sono le Officine del gas del 1927 e la Casa del fascio del 1936?
Nel frattempo dato che mi avvicinavo alla età in cui Terragni era morto, dovevo fare l’opera della mia vita. Una opera complessa, con cinque o sei strati almeno, che doveva passare indenne nelle forche caudine degli storici, e che doveva far capire la forza dell’architettura di Terragni, ma anche come quelle sue opere creassero un clima culturale, determinassero una vicenda biografica. Insomma un Vita e opere che conoscevo come metodo nella storia dell’arte ma che in Architettura non era praticato.
Ne nacque “uno dei migliori testi sull’architettura italiana contemporanea che io conosca” e non solo su Terragni come scrisse Francesco Tentori nella sua presentazione.[2]
Nella mia premessa – ci misi tre settimane a scriverla – dovevo spiegare chiaramente questo metodo e questi fini e lo feci citando Leonardo Benevolo. Avevo scovato in un suo saggio questa affermazione “Sceneggiatura delle scelte concrete”[3]. Tentori la riprese nella sua presentazione al libro, voleva rimarcare quello che io cercavo di fare: una scrittura non letteraria ma pertinente che entrasse “dentro” un pensiero progettuale. Una modalità da architetto. Tentori nella sua Presentazione mi inserisce in una nobile genealogia: Benevolo, Zevi, ma anche prima Samonà e prima ancora il siciliano Enrico Calandra.
Naturalmente per me sceneggiatura delle scelte concrete era in connessione alla mia pratica di smontaggio e naturalmente pensavo al computer e ai miei film di animazione. Anzi, io le architetture non realizzate di Terragni le avevo smontate quasi tutte con i miei studenti al Politecnico Federale di Zurigo, dove ero stato invitato ad insegnare da Gerhard Schmitt che era una grande autorità già allora nei primi anni Novanta. Non dissi una sola parola del mio metodo nel libro di Laterza su questo aspetto, ma anni dopo potei fare un libro in una collana che avevo fondato, la Rivoluzione Informatica in Architettura per spiegare esattamente il metodo e gli strumenti concettuali e informatici che usavamo[4]. Insomma sceneggiatura delle scelte concrete era diventato un mio motto.
Lo applicai nei due volumi su Peter Eisenman e soprattutto su Frank Gehry: in questo caso tutto il lavoro era visto attraverso cinque verbi-azioni (assemblare, spaziare, slanciare frammentare, liquefare…) e poi questa idea si condensava in verbi-azioni che erano necessari anche nell’insegnamento soprattutto quando per due anni stetti in Africa. Dovevo avere parole chiare, che condensavano una modalità del fare.
Tornato in Italia, adoperai questa tecnica in un seminario dottorale del 2010 ma soprattutto mi misi in testa di fare uno dei miei seminari di dottorato su questo tema.
I materiali che sono in questo libro derivano, rivisti, aggiustati ricalibrati, da quella esperienza.
Ora però dobbiamo essere più chiari. “Sceneggiatura delle scelte concrete” è stato anche il modo in cui cercavo di condurre la direzione della sezione gli Architetti dopo la morte di Zevi (trentadue volumi, molti con Testo&Immagine e otto con Marsilio). Cercavo di far seguire agli autori questa impostazione “pertinente” agli strumenti del progetto e anche l’inserimento nella scrittura di quegli aspetti culturali, storici e contestuali che davano spessore alle scelte dell’architetto. Si badi, non si trattava di avere la biografia dell’architetto in un libro a lui dedicato. Si trattava di estrapolare quegli aspetti della sua vicenda biografica che davano spessore all’opera architettonica, che è una cosa completamente diversa. Si vedano i libri su Soleri[5] o su Predock[6] o su Ricci[7] o su Van Berkel[8] come esempio.
Oggi siamo nel 2017, siamo in una fase storica diversa. Forse il nemico da sconfiggere non è più l’Architettese, ma al contrario una forma che usa una scrittura leggera tra la boutade e il motto di spirito infarcita di notizie anche personali e di giudizi tranchant sulle opere. Ve ne sono esempi in rete, e naturalmente io me ne dispiaccio molto anche perché il campione è un mio vecchio amico, che ho certamente aiutato ad entrare con forza nella scrittura di architettura ma che oggi produce esiti che secondo me fanno male alla cultura dell’architettura. La critica serve al critico per affermare la sua posizione, chi legge può essere ammaliato, ma in fondo l’architettura ne esce ridimensionata, impoverita, banalizzata.
Ma a noi architetti operanti, a noi che insegniamo progettazione architettonica, ai nostri dottorandi e ai nostri studenti questo deve interessare solo marginalmente. A noi interessa entrare veramente nei meccanismi di un progetto: capirli, analizzarli e poterli trasmettere. Noi non pensiamo che la critica sia leggere giudizi altrui ma sviluppare concretamente una propria funzione conoscitiva e critica.
Ecco dunque la ragione seconda di questo libro. Mostrare che è possibile lavorare a una scrittura pertinente di architettura, che apra metodi, pensieri, ipotesi progettuali. Questa scrittura infatti è propedeutica anche a quello che noi chiamiamo “scacchiere” e di cui parliamo a parte nel capitolo che è anche la trascrizione della mia lezione.
Buona lettura e un grazie ai due curatori e redattori de «Gli Strumenti» Valerio Perna e Gabriele Stancato e agli altri architetti che hanno contribuito.
Antonino Saggio | nITro
NOTE
[*] il testo è tratto dalla prefazione del volume “La sceneggiatura delle scelte concrete”.
[1] John G. Hamhardt intervista Bill Viola in Arturo Galansino, Kira Perov (a cura di), Bill Viola Rinascimento Elettronico, Giunti, Firenze 2017 p. 133
[2] Francesco Tentori, “presentazione” in Antonino Saggio, Giuseppe Terragni Vita e opere, Editori Laterza, Roma-Bari 1995, 2011, p. VII
[3] Cfr. Leonardo Benevolo, La percezione dell’invisibile: piazza San Pietro del Bernini, «Casabella», n.572, ottobre 1990
[4] Mirko Galli, Claudia Mühlhoff, Terragni Virtuale, Testo&Immagine, Torino 1998
[5] Luigi Spinelli, Paolo Soleri. Paesaggi tridimensionali, Marsilio, Venezia 2006
[6] Pierluigi Fiorentini, Antoine Predock. Echi del deserto, Marsilio, Venezia 2008
[7] Giovanni Bartolozzi, Leonardo Ricci, Testo&Immagine, Torino 2004
[8] Antonello Marotta, Ben Van Berkel, Testo&Immagine, Torino 2003; Andrea Sollazzo, Van Berkel digitale, Edilstampa, Roma 2010