“l’Architettura è elemento centrale e garante dell’influenza d’ordine superiore della natura sulle opere dell’uomo” e il suo valore “dipende da due caratteri distinti: l’uno è l’impronta che essa riceve dalla potenza creativa dell’uomo; l’altro, l’immagine che essa produce della creazione naturale …” [John Ruskin]
Spesso l’architettura contemporanea , con la sua monumentalità, tende a mettere in secondo piano, o addirittura cancellare, il paesaggio naturale. In Sicilia, invece, avviene il procedimento inverso. Lo spettatore, infatti, è qui portato in primo luogo a relazionarsi con la natura, protagonista della scena, e solo in un secondo momento con l’architettura. Un esempio di questo procedimento è senza dubbio Cefalù grazie al suo centro storico aggrappato alla montagna rocciosa che si collega gradualmente alla parte pianeggiante della nuova espansione. (leggi anche l’articolo “Architettura in Sicilia. Percorsi dell’Imprinting” del Prof. A. Saggio)
Due figure di spicco dell’architettura di questa città, a partire dagli anni settanta, sono stati gli associati Pasquale Culotta e Giuseppe Leone. Le loro architetture hanno rappresentato per Cefalù una grande stagione di crescita essendo caratterizzate da un atto semplice e significativo: l’andare alle fonti, riconoscerle e toccarle con mano e, dopo averle fatte proprie, riconoscendone condizioni e limiti, dargli nuova vita. Culotta&Leone sono stati architetti capaci di muoversi in due direzioni differenti all’interno di Cefalù tra la città nuova e il centro storico. Negli anni settanta, infatti, a stretto contatto con l’imprenditoria privata, realizzano progetti collocati lungo il nuovo asse di espansione fuori dalla città vecchia; con la “Casa Rosa” e il “Palazzo Giallo” i due architetti riescono a convincere la committenza a trasformare un intervento privato in un intervento urbano posizionando il nuovo edificio non più parallelamente alla strada ma ortogonalmente ad essa creando, così, una piazza-corte interna capace di innescare un “moto pedonale”.
Nonostante la piccola volumetria concessa per la Casa Rosa, pari a quella di una singola abitazione a differenza di quella Gialla, la sua collocazione strategica “in alto” delimita la corte interna e crea, grazie ai sui pilastri a vista, un diaframma che rende possibile un dialogo tra la corte e Via Palestra. Il riferimento formale alla torre Velasca non è un fattore secondario, ma mette in rilievo l’esperienza e le influenze che i due architetti acquisiscono in questo periodo con alcuni maestri dell’architettura italiana come Vittorio Gregotti, Alberto Samonà e Gino Pollini. I loro progetti, infatti, si possono considerare come un’interpretazione mediterranea delle architetture del razionalismo italiano che esaltano con la loro idea di “Monomatericità colorata”. Nello spazio pubblico si ripropone un’architettonica massa muraria che utilizza il colore come materia, alla ricerca di effetti di luci e ombre che trasformano i progetti in spazi metafisici e surreali. Ma questa monomatericità colorata deve molto anche all’opera di Luis Barragan, ingegnere messicano del ‘900, che ha influenzato molto il pensiero architettonico dei due progettisti siciliani. L’opera di Barragan, infatti, rappresenta l’apoteosi del colore nell’architettura moderna, la quale tendeva a valorizzare il paesaggio messicano e la sua cultura popolare.
I colori dei costumi popolari trovano con lui nuova vita attraverso un’architettura che, con le sue superfici scabre, i suoi volumi puri, i suoi getti possenti e i suoi forti contrasti tra ombra e luce, tende a dagli particolare risalto. Ma è il Complesso EGV Center su Via Roma, vicino la stazione ferroviaria, a rappresentare meglio l’opera architettonica di Culotta&Leone. Residenze e servizi sono uniti in tre blocchi di fabbrica interconnessi tra loro attraverso passerelle e atrii a diverse altezze che generano, anche qui, coorti interne pedonali. Fonte di ispirazione per quest’architettura è sicuramente la Casa del Fascio di Terragni a Como che i due architetti reinterpretano e fanno propria. Come il progetto di Terragni, infatti, l’EGV Center è caratterizzato da volumi prismatici prevalentemente bianchi le cui facciate, prive di apporti decorativi, lasciano ampio spazio all’esibizione della griglia strutturale di pilastri e travi con ampie superfici vetrate che favoriscono la continua percezione dello spazio tra interno ed esterno. Ma mentre la Casa del Fascio è inserita in un lotto rettangolare, lasciando libera una porzione antistante e generando lo spazio urbano di piazza del Popolo, il progetto urbano siciliano oltre alla creazione di un asse di penetrazione, attraverso numerose percorrenze a diverse altezze, genera tagli che riconnettono questa corte ad un parcheggio, alla stazione, alla città circostante. Molto importante è la relazione di questo complesso con l’adiacente via Roma attraverso una facciata cieca, una sorta di schermo opaco che difende EGV Center dal rumore del traffico automobilistico. Questo schermo opaco si prolunga lateralmente per formare un portale che si collega alla casa vicina e che segna l’ingresso nella piazza inquadrando suggestivamente la montagna sullo sfondo.
Discorso diverso viene formulato dai due architetti siciliani all’interno del centro storico, in cui l’individuazione dei grandi “contenitori” si svicola dal concetto di connessione con l’intorno, attraverso percorsi urbani esterni, e genera, invece, percorsi gerarchici interni all’edificio capaci di riportarli ad una nuova dinamica di vita urbana. Opera di spicco degli anni ottanta/novanta è, in quest’ottica, il progetto del Municipio sulla piazza del Duomo. Il Municipio, ex Monastero di Santa Caterina, si articola attraverso corti e chiostri interni che diventano piazze pubbliche. Un percorso continuo chi inizia dallo spazio pubblico per eccellenza, Piazza Duomo, e che si innerva all’interno dell’edificio attraverso una semplicità linguistica tale da dare particolare risalto all’arte presente in questo luogo, quell’arte sopravvissuta alla degradazione del tempo. Tutto il complesso è finito con intonaco bianco e calce che riprendono la tradizione e l’uso locale di fare architettura. Il monastero diventa così un pezzo di città nella città.
Di grande bellezza sono, inoltre, tutta una serie di piccoli interventi, realizzati sempre dai due architetti Culotta&Leone, lungo le mura della città antica sulla costa. Interventi, questi, volti a restituire leggibilità all’antico sistema difensivo di Cefalù, come il restauro della terrazza del Bastione del Convento dell’Itria (Infermeria dei Frati Cappuccini di Gibilmanna) e il Parco di Pietra, commissionato dal Comune di Cefalù al fine di rendere accessibile la scogliera. Quest’ultimo, infatti, oltre a consolidare e restaurare le antiche mura della città, genera un sistema di percorsi che trasformano questi scogli in un parco urbano pubblico sul mare capace di collegare storia (il Bastione e la Postierla) e natura (scogliera) attraverso un’architettura resa omogenea dalla pietra lumachella.
Ma questo concetto di un’architettura dei percorsi, esterni ed interni, di un’architettura dei colori, di un’architettura fortemente legata al luogo e al suo passato possiamo rileggerlo anche nelle opere dell’architetto Marcello Panzarella.
Partendo dalla storia di Cefalù, dalle tracce di un passato non più visibile, ripercorre le incisioni delle acque che dal monte scorrevano subito fuori le mura e le riporta in luce attraverso la realizzazione di una serie di fontane/sculture lungo il tracciato. Un intervento, questo, che sa riportarci alla forma del corpo che giace sotto le varie stratificazioni del tempo in angoli, apparentemente anomali, della città. Ricostruisce poi il sagrato della Chiesa di S. Maria fuori le Mura, demolito alla fine degli anni cinquanta, un sagrato che ambisce alla solidità e predilige l’uso della pietra; per questo motivo realizza i parapetti delle scale in muratura piena, sormontata da una pietra articolata a gola che funge da corrimano. Ad alleggerire il tutto intervengono le ceramiche maioliche applicate sulle alzate dei gradini con moduli ripresi dalla tradizione siciliana del XVI secolo.
Nell’ambito delle opere di riqualificazione urbana, Panzarella realizza la “Corte delle Stelle” riuscendo a riconnettere parti diverse della città, secondo le indicazioni del piano particolareggiato di Culotta&Leone. Il progetto si compone di due piazze sfalsate su quote diverse che generano un raccordo tra le vie del centro storico e l’interno della corte, caratterizzata da un passaggio di quota attraverso una scala spiraliforme che, richiamando la scalinata dell’antico lavatoio di Cefalù, diventa la protagonista della scena. Questo progetto ha il potere di rievocare luoghi e architetture vicine e lontane, con una grande sensibilità nei confronti della storia come fondamento della città.
“Spazio dell’architettura, e spazio della città, percorsi, tracciati, slarghi, strettoie, ponti, porte, piazze, griglie adagiate sul suolo piatto di un sedimento fluviale o adattate alle forme gibbose di una collina, tutto – della città e dell’architettura – è legato in modo inestricabile a ciò che lo precede e sostiene da sempre.” [Marcello Panzarella]
Rosamaria Faralli | nITro
Bibliografia:
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Teoria dell’Architettura, Chiara Ottolini, Brunetto De Battè (a cura di), “Decorazione” di Marcello Panzarella, Neos, Genova 1999, pp. 65 – 69;
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Orientamenti dell’Architettura Contemporanea in Sicilia, “Culotta e Leone a Cefalù” di Marcello Panzarella;
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Orientamenti dell’Architettura Contemporanea in Sicilia, “Culotta e Leone. Opere nel centro storico di Cefalù” di Marcello Panzarella;
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Teoria dell’Architettura, “Lo spazio dell’architettura” di Marcello Panzarella;
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Orientamenti dell’Architettura Contemporanea in Sicilia, “Parco di Pietra. Il fronte a mare di Cefalù, di Culotta e Leone” di Marcello Panzarella;