AMANZIO FARRIS. La relazione fra dimensione antropologica e naturalistica degli spazi

Amanzio Farris e il concetto di Terroir.

L’architettura è in grado di amplificare la relazione tra individuo e luogo, anche in assenza di monumentalità, uno spazio minimo può divenire unp spazio intimo di contemplazione. Amanzio Farris rappresenta una figura di riferimento nell’architettura italiana contemporanea per la sua capacità di intervenire con sensibilità e intelligenza nei luoghi, trasformando esigenze funzionali in opportunità poetiche e culturali. Le sue opere invitano a riscoprire il valore del paesaggio, della memoria e dell’esperienza quotidiana dello spazio urbano. Il concetto alla base del suo operato si sposa perfettamente con la filosofia del “terroir” che coinvolge la dimensione antropologica e non unicamente quella naturalistica di un luogo Fra i progetti più famosi dell’architetto ritroviamo un preponderante protagonista: il paesaggio. Il focus su esso viene concretizzato dall’ espressione concettuale-filosofica e progettuale del tema del belvedere.

Il paesaggio come protagonista indiscusso del progetto

Nella narrativa delle sue opere il paesaggio non diviene, come spesso capita, mero sfondo dell’opera ma ha un ruolo da protagonista. La natura e l’architettura si fondono ideologicamente e concretamente dando vita al “belvedere”. Questo termine è stato utilizzato fin dal Rinascimento per caratterizzare un punto di vista architettonico privilegiato o addirittura, in particolare nel periodo barocco: un intero edificio o un palazzo miniatura che incorpora una visione particolare sul contesto. Con “Belvedere” viene indicato un luogo dal quale è possibile godere di un vasto panorama, è esplicativo del concetto di bellezza nella visione contemporanea di paesaggio. E’ la sola presenza di caratteristiche topografiche e paesaggistiche del territorio circostante a determinare le prerogative dei belvedere. Lo scopo del progettista in alcuni casi, come in quelli di cui si parlerà a seguito, è generare un belvedere, amplificando le potenzialità del sito, creando una nuova esperienza percettiva. Farris è dotato di sensibilità poetica, con degli interventi minimali è in grado di generare una venustas affascinante nel silenzio della natura.

Come delle scelte formali possono celebrare l’incontro fra uomo e natura?

L’architettura, anche nei suoi gesti più minimi, è sempre un atto di relazione. Non è solo costruzione, ma costruzione di senso. E proprio in questa prospettiva il semplice atto del “sedersi” diventa un dispositivo architettonico potente: la forma dell’elemento che lo permette – una seduta, un muretto, un gradino – non è mai neutra. Essa racchiude in sé il percorso fisico, visivo ed emozionale che conduce a quel luogo, condensando il tempo e lo spazio in una forma precisa. Quando ci chiediamo dove sedersi, cosa guardare, come guardare, entriamo nel cuore del progetto architettonico. Ogni scelta di collocazione, orientamento, altezza o materia di una seduta diventa risposta concreta a domande astratte: è qui che l’architettura si fa strumento di interpretazione del paesaggio e, al tempo stesso, di costruzione di significato. L’atto del sedersi non è solo una pausa, ma una posizione mentale, una condizione dell’essere. È il momento in cui lo spazio circostante si lascia contemplare e comprendere. La materia con cui viene modellato un oggetto architettonico non è mai soltanto fisica: è materia che trattiene la luce, che riflette il tempo, che accoglie il corpo. Una pietra ruvida, una superficie levigata, una struttura metallica esile: tutto parla, tutto partecipa. E così anche la misura diventa linguaggio: la proporzione tra l’uomo e lo spazio non è solo ergonomia, ma un modo di dire quanto quel luogo è stato pensato per essere vissuto, guardato, abitato. Ecco allora che l’incontro tra l’uomo e il paesaggio – momento fragile, silenzioso, ma profondissimo – può essere celebrato proprio dall’architettura. Non con gesti imponenti, ma con attenzioni sottili: un’inquadratura, una soglia, una pausa. L’architettura ha il potere di rendere eloquente questo incontro, di dargli forma e risonanza. Di suggerire, con poche linee e materiali misurati, che qui vale la pena fermarsi. Che da qui si può guardare, e vedere davvero. In fondo, l’architettura più autentica non impone mai la sua presenza, ma accompagna, orienta, rivela. E quando riesce a fare questo – a guidare lo sguardo senza trattenerlo, a sostenere il corpo senza distrarlo – allora si fa davvero linguaggio universale. Una voce che parla sottovoce, ma che non smette mai di dire: ascolta il luogo, guardalo, abitaci dentro.

Tutti questi principi – la centralità del gesto minimo, la relazione profonda tra corpo, sguardo e spazio, la materia che diventa racconto – trovano piena espressione nell’approccio progettuale di Armazio Farris. Nei suoi interventi, l’architettura non si impone mai come elemento estraneo, ma nasce da un ascolto attento del luogo, dal riconoscimento delle sue tracce, delle sue tensioni, delle sue possibilità silenziose. Il paesaggio, per Farris, non è mai solo sfondo o contesto: è interlocutore vivo, presenza attiva da rispettare, interpretare e valorizzare. In questa visione, ogni progetto diventa un atto di cura, un gesto calibrato che rivela la ricchezza profonda del territorio senza alterarne l’equilibrio. Che si tratti di una soglia, di una seduta, di un’apertura, ogni scelta è il risultato di un dialogo costante tra natura e cultura, tra il visibile e l’invisibile. L’architettura si fa allora strumento di narrazione e contemplazione, capace di restituire senso ai luoghi, di guidare lo sguardo senza trattenerlo, di suggerire nuove modalità dell’abitare. È in questo orizzonte progettuale che si inserisce anche l’intervento a Rocca Canterano, dove il paesaggio diventa protagonista attraverso una serie di dispositivi misurati e silenziosi.

Un belvedere tra le rovine. Rocca Canterano, Roma 2011–2014.

Progetto selezionato nel Padiglione Italiano alla Biennale di Architettura di Venezia del 2018;

Nel cuore del paesaggio laziale, Rocca Canterano appare come un borgo in cui la vista sull’ambiente circostante tende a dissolversi tra le sue stradine anguste. Esiste però un unico punto, nei pressi della piazza di Corte, in cui il panorama si apre improvvisamente sui Monti Simbruini. Questo raro varco visivo ha ispirato la trasformazione del luogo in un punto di osservazione privilegiato.

L’area d’intervento si presentava come uno spazio raccolto, simile a una piccola stanza all’aperto, parzialmente delimitata da un muro in pietra ormai in rovina. Una minuscola apertura all’interno di questo muro offriva già uno scorcio sul Monte delle Pianezze, come se fosse una cornice naturale. Sfruttando il dislivello tra questo spazio e la piazza adiacente, il progetto ha ideato una sequenza visiva che si sviluppa in ascesa: lo sguardo è guidato passo dopo passo, fino a raggiungere l’affaccio. Il parapetto, discreto e visivamente leggero, non ostacola questa progressione, ma la accompagna.

Una pergola metallica, bassa e orizzontale, evidenzia le linee di forza che si proiettano tutte verso un unico punto: il paesaggio. Il pavimento, realizzato con lastre di calcestruzzo lavato separate da profonde fughe, permette il drenaggio dell’acqua e al tempo stesso crea giochi d’ombra che aggiungono spessore visivo allo spazio. Le due sedute, concepite come estensioni del pavimento stesso, si trovano una accanto al muro diroccato e l’altra sul bordo esterno dello spazio. Semplici ed essenziali, questi elementi riescono a dialogare armoniosamente con il contesto, sostenendo la relazione con il paesaggio senza mai imporsi.

Le sedute non fungono solo da luoghi di sosta, ma rappresentano due modi distinti di “fermarsi” e “guardare”. Un telaio metallico inserito nell’apertura del muro incornicia il paesaggio, trasformandolo in una sorta di quadro vivente. Ogni singolo dettaglio del progetto è stato pensato per guidare il corpo e lo sguardo, suggerendo un’esperienza sensoriale e visiva precisa.

Come in molte opere di Ferris, lo stupore che nasce dall’imprevisto è centrale: l’architettura sorprende.

“Architettura non si basa sul calcestruzzo e l’acciaio e gli elementi del suolo. Si basa sulla meraviglia. “

-Daniel Libeskind

Questa visione si riflette nella composizione della scala: inizialmente il panorama viene celato dalla seduta disposta di traverso; poi, salendo, il sistema dei gradini conduce progressivamente lo sguardo verso l’apertura nel muro, fino alla scoperta finale della vista. La ringhiera, interrotta al centro, lascia spazio all’immaginazione, suggerendo un’estensione visiva verso l’infinito. Ogni punto del percorso offre una prospettiva diversa sui Monti Simbruini, alternando visioni ravvicinate e lontane, intime e maestose. Anche il muro in rovina partecipa a questa composizione, raccontando attraverso la sua materia l’inesorabile passare del tempo, in contrasto e in armonia con l’immensità del paesaggio. Lo sguardo rimbalza continuamente fra i dettagli lontani e quelli vicini. Anche il muro diroccato viene coinvolto nel gioco delle relazioni fisiche e visive, elemento che regala materialmente l’idea dello scorrere del tempo e si raccorda con l’immensità del paesaggio.

Una piazza marginale. Rocca di mezzo, Roma 2013–2015

Una piazza marginale. Rocca di mezzo, Roma 2013–2015.

Il progetto ha vinto il premio IN/ARCH Lazio ROMARCHITETTURA, VI edizione, 2017. Con menzione speciale per un’opera realizzata nello spazio aperto.

Situato a circa 750 metri di altitudine, il piccolo borgo di Rocca di Mezzo è immerso in un paesaggio fatto di rocce e boschi. Come in altri contesti simili, questo scenario naturale rimane quasi completamente nascosto una volta all’interno del paese. Il progetto si è concentrato sul ripensamento di uno spazio aperto posto al margine, con l’intento di mediare tra l’irregolarità del tessuto urbano esistente e una superficie limitata posta tra edificato e natura.

L’area, in precedenza adibita a parcheggio, non valorizzava in alcun modo il potenziale visivo del luogo. Col tempo era stato costruito un muro di contenimento, creando una superficie piana e ben esposta alla luce e alla vista. A partire da questa condizione, l’intervento di Amanzio Farris si è orientato su una nuova narrazione spaziale, costruita attraverso materia e segni. Ogni variazione progettuale è stata pensata per orientare l’attenzione verso un oggetto specifico o per incanalare lo sguardo verso il paesaggio.

Al centro di questa rinnovata piazza emergono due elementi – una roccia e un blocco d’acqua – che agiscono come poli visivi e acustici. Questi due oggetti, semplici ma densi di significato, diventano protagonisti silenziosi di un luogo che da marginale diventa spazio di relazione, percezione e scoperta.

 Un belvedere per una persona. Rocca di Mezzo, Roma, 2013-2015.

Il progetto ha vinto il National Prize Italy, Bigmat International Architecture Award 2019, Bordeaux 22/11/2019. – Menzione d’onore per la categoria Paesaggio e spazi urbani, Premio Medaglia d’oro all’Architettura italiana 2018, Triennale di Milano. – Special prize Chamber of Architects Sofia, Interarch silver medal – Honorary Diploma, INTERARCH 2018, XV Triennale di Architettura di Sofia, Exhibition-competition of Architectural projects and built works.

Secondo la giuria del BigMat International Architecture Award 2019, questo puntuale intervento in un piccolo paese dell’Italia centrale rappresenta un esempio eloquente di come l’architettura, anche con mezzi minimi, possa esprimere la grandezza del paesaggio italiano e riportarne alla luce la forza originaria.

Firmato da Amanzio Farris, l’intervento si muove tra scultura e architettura. È uno spazio concepito per la sosta, la riflessione, e soprattutto per l’incontro intimo tra uomo e natura. Un invito alla contemplazione, capace di amplificare la percezione del paesaggio circostante. All’estremità nord del borgo, lo spazio pubblico si chiudeva in modo frammentario accanto a un balcone murato che oscurava la vista verso il Monte Terminillo. Il progetto cerca di riscattare le ridotte dimensioni del luogo attraverso una riflessione progettuale profonda e misurata. Si tratta di uno spazio raccolto, con una sola seduta. Chi vi si siede si trova con lo sguardo naturalmente sollevato oltre la ringhiera, così da non perdere la vista. Per raggiungere il belvedere è necessario salire una scala stretta: solo una volta in cima si assiste alla fusione tra materia costruita e paesaggio naturale, in un equilibrio visivo tra il piccolo e il vasto. Un blocco di pietra, leggermente ruotato rispetto al muro vicino, funge da schienale ma anche da filtro visivo, proteggendo e insieme preparando alla vista chi sale la scala. La seduta, rialzata come un piccolo podio, diventa punto focale e al tempo stesso strumento per abitare lo sguardo.

Questi tre interventi – il belvedere tra le rovine, la piazza marginale e il belvedere per una persona – nascono da una relazione profonda con il contesto: dislivelli, visuali, alberature, e ciò che già esiste diventano gli elementi generatori dell’architettura. Qui, ogni progetto è radicato nel paesaggio, e ogni gesto architettonico è al servizio dell’esperienza.

Pietre nel bosco. Il recupero della Fonte Rocca Martino a Rocca Canterano 2013-2015 / A. Farris 2018.

Il progetto è stato selezionato nelle seguenti mostre internazionali: – Interarch 2018, XV Triennale di Architettura di Sofia, Exhibition-competition of Architectural projects and built works. Sofia, dal 13/05/2018 al 16/05/2018; – 10th International Landscape Biennal 2018, COAC, Colegio oficial de arquitectos de Catalunya, Barcellona, dal 25/09/2018 al 25/10/2018; – Arquitectos romanos en el Mundo, a cura della Sociedad Colombiana de Arquitectos, Bogota’, dal 13/03/2019 al 29/03/2019

Nel cuore dei Monti Ruffi, tra la vegetazione fitta e silenziosa, giace la Fonte Rocca Martino, uno dei tanti frammenti di un’antica fortificazione, di cui restano solo pochi muri in rovina. Il bosco che l’avvolge – tra stagni, muschi e sorgenti – dà il nome e il tono all’opera: un luogo nascosto, carico di memoria e acqua.

Il progetto nasce con l’intento di riannodare i fili tra il borgo di Rocca Canterano e il paesaggio che lo cinge, attraverso il recupero del sistema delle fonti storiche, dove l’acqua – elemento primordiale e simbolico – si fa protagonista. Intervenire su questo sistema ha significato non solo restaurare, ma soprattutto restituire senso: rendere di nuovo possibile la sosta, la visione, l’ascolto. Non semplici arredi, ma presenze pietrose, i nuovi elementi inseriti nel paesaggio si dispongono come frammenti poetici, ciascuno modellato in dialogo con il carattere specifico della fonte a cui si accompagna. Blocchi di pietra, sobri ma potenti, sono collocati per suggerire un gesto, una postura, un orientamento. Sedersi diventa così un atto di riconoscimento: dello spazio, del tempo, della natura che lo circonda.

Alla Fonte Empolitana, la seduta è ottenuta incastrando i blocchi in modo tale da estendere idealmente l’orizzontalità bassa della fonte stessa, un corpo di pietra che si prolunga nel paesaggio con discrezione. Alla Fonte Vasta, sotto la chioma protettiva di un albero, la disposizione delle pietre invita lo sguardo a cogliere, con un solo colpo d’occhio, la geometria silenziosa della fonte. Una sottile lamiera in ottone, incastonata con precisione, accoglie la luce tremolante delle candele durante le passeggiate notturne, moltiplicandone i riflessi e trasformando il luogo in un altare alla quiete. Infine, alla Fonte Rocca Martino, una nuova pavimentazione riprende l’andamento del suolo, preparandone la scena: la seduta è posta sul punto più elevato, da cui si apre la vista sulla valle. Una soglia rialzata, quasi un podio, da cui contemplare la distanza, la luce, il paesaggio che si svela.

Questo lavoro di Amanzio Farris trova un ideale parallelo nella Cabina Masella, progettata da Marte Architects a Dafins, in Austria (2019). Anche lì, un bosco. Anche lì, materia povera. Ed è proprio questa “povertà” – intesa nel senso più nobile – a legare le due opere: pochi materiali, essenziali e spogli, capaci però di racchiudere un’energia poetica e simbolica straordinaria. La scultura di Marte, costruita in un solo materiale, evoca la memoria della Masella: una capanna di legno, rifugio per i boscaioli e gli zatterieri, dove si sedeva accanto al fuoco, attorno a una panca che raccoglieva la fatica e il silenzio del bosco. Un’opera che si muove tra arte e memoria, posta sul margine del pendio, a metà tra un’installazione e un memoriale, per non dimenticare ciò che un tempo fu.

Così anche a Rocca Canterano, Farris recupera le fonti antiche per restituire una relazione dimenticata. Non solo restaurando, ma creando nuovi luoghi del sentire, dove la pietra accoglie e guida, e il paesaggio si fa esperienza. Le sue sedute si innestano nel terreno come fossili contemporanei, chiamando alla sosta, alla contemplazione, al rispetto. Trasformano il cammino in rito, e il bosco in racconto. La povertà in questo caso è da intendere nella maniera più nobile del termie, degli elementi utilizzati che seppur lineari, basici e nudi generano però una potenza comunicativa e simbolica fuori dal comune.

L’opera è l’esatto connubio fra un’installazione artistica collocata, quasi, a strapiombo su un pendio e un memoriale che ha lo scopo di non far dimenticare ciò che c’era in origine nel luogo.

Intorno all’acropoli. Proposta di recupero dell’area Faul a Viterbo / Farris, Amanzio; Balducci, Fabio; Carparelli, Carmine; Perugi, Giulia; Pirronello, Enrica; Visione, Francesca. – (2018).

Il progetto è stato vincitore del Primo Premio al workshop internazionale di progettazione architettonica e urbana “Per la città di Viterbo. Il progetto del centro”.

L’area interessata dal progetto si configura come un luogo a doppia identità: da un lato l’acropoli del Colle del Duomo, custode del tempo e della storia; dall’altro, la valle Faul, corridoio contemporaneo della mobilità e dell’accessibilità urbana. Due mondi si fronteggiano – uno immobile nella sua monumentalità, l’altro in continuo dialogo con il presente – ed è nel loro incontro che il progetto trova la sua ragion d’essere.

L’intervento non cerca di sovrapporsi a queste nature contrastanti, ma di intrecciarle. È attraverso la materia – le sue sfumature, le sue giunzioni, le sue transizioni – che il progetto costruisce un sistema di relazioni capaci di generare valore. Non è il singolo elemento a prevalere, ma il legame che si crea tra le cose: è nella relazione che si rivela la bellezza e il significato dello spazio. Fra le principali azioni previste, troviamo l’apertura dei Giardini Papali al pubblico, trasformandoli in un parco urbano accessibile e permeabile, un luogo di quiete e di incontro nel cuore della città; il ridisegno del suolo e dei margini attorno alla Porta di Valle, in modo da definire una nuova soglia urbana, più chiara e accogliente; il recupero dell’edificio in rovina su via San Clemente, che assume il ruolo di cerniera tra il percorso e i giardini, restituendo continuità tra le parti; la rifondazione architettonica dello spazio e della scala collocati sotto la loggia Papale, dove l’intervento lavora sulle geometrie e sui vuoti per generare una transizione significativa tra i livelli urbani; la creazione di un belvedere proteso verso la valle Faul e il fianco imponente del Palazzo dei Papi, un gesto semplice ma potente, che apre nuove visuali e restituisce dignità al rapporto tra architettura e paesaggio. Tutto si tiene in un sistema delicato e coerente, come una trama sottile di percorsi che non solo collega luoghi, ma fa emergere memorie sopite e stimola nuove narrazioni urbane. È un disegno calibrato, capace di amplificare connessioni esistenti e di generarne di nuove, restituendo alla città un volto che guarda contemporaneamente al passato e al futuro.

In un tempo in cui l’architettura rischia spesso di essere ridotta a oggetto visivo o a esercizio formale, l’approccio di Armazio Farris rappresenta una rara forma di resistenza culturale. Nei suoi progetti, lo spazio costruito non si impone mai sul paesaggio, ma ne raccoglie le tensioni, le memorie, le fragilità. È proprio in questa capacità di ascolto e interpretazione che risiede il legame profondo con il concetto di terroir: una nozione che va ben oltre l’ambito agricolo e che include il sapere collettivo, l’identità stratificata dei luoghi, il rapporto tra natura e cultura. Il terroir non è solo geografia, ma è anche gesto umano, è storia sedimentata nei materiali, è consuetudine trasformata in forma. Farris, nel suo modo di fare architettura, traduce tutto questo in dispositivi leggeri, in pause misurate, in segni capaci di valorizzare ciò che già esiste, senza mai snaturarlo. Ogni suo intervento è un atto di mediazione tra l’uomo e il paesaggio, tra il presente e la memoria, tra il visibile e l’invisibile. In questo senso, la sua architettura non solo celebra il paesaggio, ma lo fa parlare, rendendolo accessibile alla percezione e alla coscienza. È proprio qui che l’architettura incontra il terroir: nel farsi espressione coerente di un luogo vissuto, tramandato, interpretato. Un luogo che, grazie alla sensibilità del progetto, non si limita a essere osservato, ma può finalmente essere abitato con consapevolezza.

di Roberta Recchia | nITro

Bibliografia

“PROGETTO, MEMORIA E FUTURO DEI LUOGHI POST–SISMA. Proposte per il recupero dell’ex Convento di Sant’Anna a Borbona.” Edizioni Roma TrE–Press© Roma, giugno 2020.

Sitografia

https://divisare.com/projects/372386-amanzio-farris-intorno-all-acropoli

https://www.archilovers.com/projects/273376/pietre-nel-bosco.html

https://divisare.com/projects/317972-amanzio-farris-una-piazza-marginale

https://www.archdaily.com/1004831/masella-cabin-martarte-architects

https://landscape.coac.net/pietras-en-el-bosque

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