Nel 1969 Richard Buckminster Fuller pubblica il libro Operating Manual for Spaceship Earth, in cui elabora una teoria sistemica del pianeta terra: «Noi abbiamo guardato alla Nave Spaziale Terra come a una macchina concepita integralmente, una macchina che, per continuare a funzionare bene, deve essere compresa e mantenuta nella sua totalità» (Fuller, 2018, p. 66)[1]. Fuller riscopre la “sinergia” spingendola ben al di la della greca “συνεργός” (synergos) composta da “σύν” (syn), “insieme”, e “ἔργον” (ergon), “lavoro”. «Sinergia è la sola parola nella nostra lingua che significa che il comportamento di un intero sistema è imprevedibile attraverso l’osservazione separata dei comportamenti di una qualsiasi parte separata del sistema, o di qualunque combinazione inferiore delle parti del sistema» (Fuller, 2018, p. 81). Per superare una visione specialistica e riduzionista che lavora su dati separati dobbiamo invece pensare in termini di topologia che, come spiega Fuller, è: «la scienza che descrive i comportamenti fondamentali e le relazioni strutturali delle costellazioni di eventi» (Fuller, 2018, p. 86). Questo ragionamento forse va ben oltre il concetto di Territorio (nelle sue componenti ambientali, dei suoli, della idrografia, della topografia) o di semplice interdisciplinarità perché cambia il paradigma stesso del progetto, che si sposta ora “dagli oggetti ai processi”. Ora, nel contesto di questo numero dedicato a Unearth city, è interessante pensare se tutto ciò possa avere un impatto anche sul patrimonio archeologico, in maniera da trasformarlo non in risorsa da sfruttare, (come fosse una pozzo petrolifero) ma in un vero e proprio “agente” di nuovi processi di coscienza civica e politica.
Uno sguardo di grande interesse si rivolge in questo contesto a una condizione che possiamo definire archeologica. Tale prospettiva, che fa riferimento al mondo sommerso, celato alla vista, di tracce perdute o ancora da portare alla luce, diventa una metafora di grande interesse, in quanto chiarisce una dimensione non quantificabile e vitale per comprendere una realtà che è la somma di stratigrafie complesse che si sono sommate nei secoli. Possiamo, in questa ottica, analizzare il lavoro letterario di Jorge Luis Borges. La sua letteratura è permeata da una dinamica complessa che relaziona la storia dei soggetti a quella delle mappe dei luoghi: spazi che raccolgono l’inquietudine della vita. Borges traeva ispirazione da Kafka, dal disagio dell’uomo contemporaneo che aveva perso le coordinate del suo stare nel mondo. Il labirinto, sempre al centro delle sue narrazioni, era innanzitutto esistenziale. La riflessione dello scrittore argentino aveva riportato la geografia all’interno del corpo umano: «Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. […] Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto» (Grau, 1998, p. 34)[2]. Il corpo della città archeologica e quello molecolare del singolo sono entrati inesorabilmente in contatto, sino a sovrapporsi in una carta sociale. È stato lo studioso Carlos Martí Arís ad analizzare il pensiero di Borges nel libro Silenzi eloquenti con la volontà di individuare una relazione profonda nel Novecento che unisce due dimensioni apparentemente antitetiche: quella della astrazione immaginifica e quella archeologica. Secondo il critico: «Il labirinto della letteratura è concepito da Borges come qualcosa di ineluttabile: è l’unico modo possibile di abitare il mondo e di riconoscerlo. […] Il silenzio di Borges si basa sulla volontà di dissolvere la sua voce individuale nell’immenso territorio anonimo della letteratura» (Martí Arís, 2002, p. 23)[3]. Martí Arís è illuminante quando sostiene che per lo scrittore argentino «qualsiasi luogo è archeologico: se scavassimo, vi troveremo rovine di costruzioni antiche, frammenti di pensiero di quanti ci hanno preceduto» (Martí Arís, 2002, p. 25).
Come possiamo unire il mondo complesso del progetto con quello archeologico e pensare a quella Carta sociale del patrimonio precdentemmente ricordata?
Dobbiamo spostarci a Ceuta per scoprire un intervento di straordinaria qualità. Operare in una topografia complessa come il sito archeologico di Ceuta, che conserva un nucleo di rovine ispano-musulmane del XIV secolo, diventa un’occasione per costruire una nuova relazione con il passato. Paredes Pedrosa Arquitectos realizzano la Biblioteca pubblica di Ceuta, un edificio plasmato da un volume metallico, che ingloba i resti antichi. Destinare questa porzione archeologica a biblioteca offre al sito e alla città nuove possibili connessioni. La biblioteca, al contempo, riporta alla mente la dimensione criptica della conoscenza. Il Novecento ha riscoperto il mondo dell’archeologia, spostandolo in uno spazio interiore.

Come si diceva, Jorge Luis Borges ha creato un legame profondo tra memoria, conoscenza e archeologia. In un bel libro scritto da Cristina Grau, Borges e l’architettura, vengono rievocati il soggiorno dello scrittore argentino in Spagna, l’interesse per la cultura araba e ancora l’elogio dell’ombra, lo spazio arcano e misterioso del labirinto. L’autrice ricorda che nella sua biblioteca personale ci fosse l’opera I pensieri di Pascal da cui lo scrittore aveva recuperato la massima: «L’universo è una sfera infinita dove il centro è dappertutto, la circonferenza da nessuna parte» (Grau, 1998, p. 50). A questa Borges aveva sostituito il concetto: «La Biblioteca è una sfera il cui centro esatto è qualsiasi esagono, e la cui circonferenza è inaccessibile» (Grau, 1998, p. 43). Borges aveva prefigurato un’idea di conoscenza infinita, una biblioteca che conteneva tutte le possibili articolazioni delle lettere. La Biblioteca di Babele, uno degli scritti più noti dello scrittore argentino, svelava straordinari segreti sui destini dell’uomo, e un’ineffabile sorte che decretava che ogni pensiero scritto fosse contenuto al suo interno. Borges traeva ispirazione da Kafka, dal disagio dell’uomo contemporaneo che aveva perso le coordinate del suo stare nel mondo. Il suo labirinto era innanzitutto esistenziale.

Quando Ángela García de Paredes e Ignacio Pedrosa operano nel sito archeologico fanno alcune scelte fondamentali: considerare l’area storica come basamento e costruire un grande spazio di rispetto per le antiche vestigia. Il volume compatto si deforma docilmente per accogliere al proprio interno le giaciture ruotate di epoca musulmana.



Il grande vuoto generato per tre livelli è retto da pilastri prismatici di grande forza tettonica. La scelta del bianco è finalizzata a valorizzare i resti archeologici e diffondere la luce. Le terrazze che si aprono sui resti diventano delle sale lettura. All’esterno il volume si caratterizza per un basamento scavato e modellato che àncora la biblioteca al suolo della città, adattando il volume all’orografia irregolare.

L’intervento ci parla certamente di una dimensione interiore, come un processo mentale, freudiano, che rivela la memoria attraverso una prospettiva interna, ma ritorna anche il tema borgesiano della biblioteca. Ma se lo scrittore argentino l’aveva prefigurata come una sorta di alveare, con una disposizione che poteva proliferare all’infinito, ora lo spazio si apre per accogliere una memoria sedimentata, ancorata al cuore della città. Interno ed esterno si scambiano i ruoli, tanto che il grande vuoto interno conserva il ricordo di una spazialità urbana.DI particolare interesse appare il fatto quello che in Borges è una Metafora, La biblioteca – qui diventa rale progetto di utilizzo. Non solo qui è evdiente come le rovine archeologiche invece di essere oggetto di un processo di semplice turistica ruderirizzazzione vine a far parte di quella Carta Sociale indicata da Arti. Usare l’antico, rimetterlo letteralmente in circolo lo fa diventare, come si diceva, “agente” di una azione sinergica che nei fatti è un avanzamento culturale, civile e politico della civiltà che lo ha promosso.
A questa ecaso si affianca l’esempio del rudere come testimonianza di una storia drammatica. Il Restauro della Chiesa di Corbera d’Ebre a Terra Alta, Tarragona, opera di Ferran Vizoso e di Núria Bordas, offre interessanti riflessioni sul tema della materia come difesa della memoria. L’obiettivo era quello di trasformare la chiesa in sala pubblica polifunzionale e soprattutto tenere in vita un simbolo della guerra civile spagnola.

La chiesa all’esterno mantiene la sua fisionomia, mentre all’interno le volte crollate a causa dei bombardamenti bellici e le masse murarie comunicano la sofferenza della materia. L’intervento è risolto con la costruzione di una copertura trasparente, realizzata in materiale plastico. La scelta di non operare un restauro viene fatta nella piena consapevolezza della possibile perdita dell’opera, della sua storia, della sua materialità e delle sue lacune, che rendono l’impianto dotato di grande forza espressiva.


Questa memoria sofferta, incorporata nella massa e nella pelle di queste poderose strutture, trasmette all’osservatore un messaggio civile e una lezione sul passato. Ora la luce penetra dall’alto e genera un paesaggio in cui la materia comunica la sua melanconia e lo strazio della sua vicenda. Lo spazio interno, nella scelta della copertura trasparente, protegge la spazialità della chiesa, violata dalla guerra civile. Questa condizione viene salvaguardata a memoria futura. Le volte crollate mostrano, al contempo, nuove spazialità e tutto comunica una tensione tra la massa e le ossature. Il progetto celebra la dimensione intima e consunta della materia, che non solo ha attraversato il tempo, ma nel tramutarsi in rovina, a causa di forze esterne, rivela la sua vera essenza.


Ritorna alla mente la scultura tragica di Giacometti, l’artista svizzero che ha impersonificato la materia, conferendole un’aura di vissuto. Pagine dense d’intelligenza emergono dagli scritti di John Berger che ha colto il significato della materia di Giacometti nel libro My Beautiful, dove metteva a confronto la fotografia di Trivier con l’opera dell’artista. Le foto esaltavano la solitudine che la scultura di Giacometti comunicava, come uno scavo dentro la materia che, spolpata, trasmette solo il suo disagio. Il lavoro di Giacometti, sostiene John Berger, è sospeso tra essere e verità, nella convinzione che la natura dell’uomo fosse inconoscibile. Ma, al contempo, era interessato a materializzare il processo della vita. La nudità è una dimensione spirituale ed esistenziale. La sua opera creava un filo diretto con lo sguardo, dice lo storico, nell’immobilità dell’osservatore, costretto a penetrare in quel silenzio.

L’intervento del Restauro della Chiesa di Corbera d’Ebre mette in discussione le operazioni di rinnovo che, nell’intento di rifunzionalizzare il manufatto, lo alterano sino a fargli perdere non solo il suo valore storico, ma soprattutto la sua ragione interna. La materia che titanicamente ha attraversato il tempo diventa una maestra di vita e comunica, in questa sofferenza, una visione contemporanea (Marotta, 2015)[4].
Il filosofo della scienza Gaston Bachelard nel volume La Poétique de l’espace (1957) ci offre un’interessante chiave di lettura. Così scriveva: «Ogni forma conserva una vita. Il fossile non è più semplicemente un essere che ha vissuto, è un essere che vive ancora, addormentato nella sua forma» (Bachelard, 2006, p. 143)[5]. Il tempo permane quindi come un fossile vivente. È responsabilità del presente ridonare nuova vita alle archeologie del nostro tempo. Come fare interagire i temi sistemici, analizzati e introdotti a partire dagli anni Sessanta del Novecento da Fuller, con l’archeologia?
Quest’anno Antonino Saggio e Sicily Lab, composto da docenti e architetti, con il contributo scientifico dell’archeologo Michele Fasolo, stanno sviluppando un progetto interattivo e fisico a Gioiosa Guardia, alle pendici orientali del Monte Meliuso, nei resti di un abitato antico, risalente all’età del Bronzo (XIII-X sec. a.C.), che vide in epoca greca (fine VII – V sec. a.C.) la fase di maggior sviluppo. Il sito, tra la fine del V e l’inizio del IV sec. a.C., viene, infine, abbandonato con la fondazione della Colonia di Tindari, posta ad alcuni chilometri dall’area archeologica di Gioiosa Guardia.
Antonino Saggio nello scritto Hellas Gioiosa ci consente di comprendere l’azione di progetto: «Tornando ai nostri luoghi, la cresta di Gioiosa Guardia non è che un “condensato di informazione”, che naturalmente era di ordine simbolico, magico ma anche razionale, para-scientifico, territoriale, geografico, astronomico: tutto insieme. […] Una chiave dell’installazione sarà il rapporto tra l’insediamento abitato greco-siculo e l’acropoli in alto. A segnare questa relazione, correranno lungo le falde del monte una serie di segnali di impatto visivo ed emotivo sull’ambiente: saranno lunghi teli bianchi ondeggianti al vento che mostrano il percorso che legava l’abitato all’acropoli. Naturalmente in cima all’acropoli nei pressi della torre di avvistamento Federiciana in cui ancora esistono i ruderi della chiesa del monastero, ci sarà […] un tempio» (Saggio, 2024)[6].
Così il progetto intende mettere in azione operazioni complesse sull’antico in grado di attivare processi culturali e politici, per generare connessioni sinergiche – quelle che abbiamo ricordato in apertura con la citazione di Richard Buckminster Fuller – anche grazie all’uso delle nuove tecnologie informatiche.
di Antonello Marotta | nITro
[1] Fuller, R. B., 2018, Manuale operativo per Nave Spaziale Terra, Milano, Il Saggiatore.
[2] Grau, C., 1998, Borges e l’architettura, Torino, Testo&Immagine.
[3] Martí Arís, C., 2002, Silenzi eloquenti. Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza, Milano, Christian Marinotti.
[4] Marotta, A., 2015, Archeologie. Il progetto e la memoria del tempo, Roma, Edilstampa.
[5] Bachelard, G., 2006, La poetica dello spazio, Bari, Dedalo.
[6] Saggio, A., 2024, Hellas Gioiosa, On/Off Magazine.